Ho festeggiato i miei 31 anni comprando un biglietto aereo, abbandonando una donna e lasciando il lavoro. Solo due cose delle tre sono vere, l’altra accadrà a breve.
«Credo di doverti delle spiegazioni. Che tu non ne esiga è ancor più grave della mia mancanza.»
Ho dei libri da terminare, mi sono imposto di leggere dopo aver finito di scrivere un certo numero di storie che ho in testa. Robert Walser, Kurt Vonnegut, Lautréamont, DeLillo. Sono sceso in strada, ho stampato la carta d’imbarco in cartoleria e sono risalito di corsa a casa. La data sul biglietto del treno regionale che mi porterà all’aeroporto è stata illuminante: 25 gennaio 2013.
Sono grande.
Da giovane, quando fotografavo, ogni cosa diventava mia. Anche le persone che immortalavo per caso. Gente che da lì passava e, bontà loro, mai è venuta a reclamare i diritti d’immagine.
Fotografavo ch’ogni cosa era mia, le facce degli sconosciuti comprese.
Le foto mi piacciono perché non possono parlare. Se ne stanno ferme a farsi osservare. Mute, immobili, fisse, cristallizzate, uguali per sempre. Ti parlano senza lasciarti replicare. Mica come te: mi dai fin troppa confidenza.
Quel lungo attimo in cui non riconosci un’immagine: è quello il momento migliore, la fase poetica. Il disorientamento dove tutto può essere, ogni visione possibile. Lo sgomento di fronte all’indefinito. Come nei quadri avanguardisti di mezzo secolo fa, cercare di interpretare. Un volto, un naso, un albero, un profilo, la coda di un pesce. Andare oltre per capire, scavando dentro sé. Prima che la realtà affiori, distruggendo per sempre ogni forma d’immaginazione.
Dimenticare la faccia tua, abituato come sono, ogni giorno, a ritrovarmela davanti.
Ognuno ha delle vecchie foto cui dar conto.
Quelle di noi due sono partecipate al 50%, né io né tu ne possiamo disporre a piacimento.
Le parole, invece, sono di tutti e ho intenzione di tirartene addosso una secchiata: non ti amo perché non ho più voglia di fotografarti, non ti amo perché non mi piace come sali le scale, non ti amo perché usi parole chiave, non ti amo perché nella descrizioni parti dalle esperienze professionali, non ti amo perché ti si vede sul collo il segno del fondotinta. C’è come un solco al di sotto del tuo mento, non credo si tratti di una maschera, ma non ho intenzione per fidarmi.
C’è un tempo per tutto e c’è un tempo per niente: che non ti amo, no.
Ho abbandonato una donna stasera, i soggetti ignari che scorrono nelle diapositive non ne sanno nulla. Non conoscono niente di me e di lei, di quello che eravamo e che non siamo più. Ho fatto un biglietto stasera, sono grande. Lascerò un lavoro domani, non ne sono mai stato così sicuro. Sono lucido come rare volte mi è capitato, di sicuro non come quando ho deciso di provare ad amare te.
Sono giochi di semi-incoscienza il calcio e il sesso, si rimane concentrati su un oggetto, il contorno sfuma. Sono piene di individui inconsapevoli le foto dei nostri viaggi, dove sono tutte queste persone ora? Mi serve fargli una domanda: eravamo noi felici ai loro occhi? È al loro giudizio severo e inappellabile che mi rimetto. Loro, giuria popolare e noi due, imputati. Chiamo a testimoniare il signore con la camicia verde, la signora che in fondo alla scalinata guarda il Partenone, il ragazzo col capello di traverso. Chiedo venga messa a verbale anche la deposizione del cane.
La logica delle compagnie aeree, in fondo, è questa: recuperati i costi del servizio, aumentano esponenzialmente il costo del biglietto, quello che arriva da quel momento in poi è grasso che cola, puro guadagno. Come faccio io a nutrire fiducia nell’umanità?
Come il muschio che scompare il giorno dopo che l’acqua si secca: il tuo pensiero evapora nell’intervallo che un bacio s’asciuga. Sono una persona problematica, ma ora convoco tutti, devono dirmi uno ad uno cosa ne pensavano di me e te. Se il tuo sorriso era sincero e il mio sguardo fiero. Devono parlare senza abbassare gli occhi, devono provare a ricostruire. Ho i loro identikit con me, inesorabilmente risalirò ad ognuno. Avranno tutti una parte in questa storia.
La realtà è che ci siamo scattati troppe foto, sei stata sovraesposta e adesso non ho più voglia di vederti. Ho nostalgia dei nostri primi scatti, quelli rubati, quelli ammantati, ché è meglio non farsi notare. Figure distese su un divano, busti senza testa e capelli sulle spalle. Istantanee di cui non potevamo fare a meno. Senza alcun bisogno di comunicarlo al mondo. Poi un giorno ci siamo messi a fuoco, abbiamo affidato alla stabilità di un treppiedi la nostra immagine definita. Imperfetto il tremore delle nostre braccia. Svestendo i panni degli amatori, siamo diventati professionisti. Ma l’amore, quello, forse, non c’è mai stato. E se sì, lo rinnego. Per una generazione di fotografi, ne avremo una di nostalgici. Tutte le istantanee, i primi piani freschi, tra vent’anni ci colpiranno come un pugno al centro del viso. Ci ricorderanno come eravamo allora, cosa saremo diventati ora.
Le tue boccate di fumo davanti all’obiettivo, i capelli neri, il mercato del pesce, meri elementi del paesaggio. È dei soggetti inconsapevoli che d’oggi in poi m’interessa, che restino tali, perfetti nella loro ignoranza. Dalle cartoline ricordo, agli atlanti illustrati, fino alle guide turistiche, mai elementi principali. In ogni foto che trasmetta vita, imprescindibili. Diventerò un documentarista, ecco cosa farò. Nessun essere umano sarà il soggetto principale delle mie raccolte, solo individui che da lì per caso passeranno. Rappresenterò il mondo per come è fatto, senza aggiungervi altro. Mirerò all’essenza, raffigurando l’esistente. Un albero, una chiesa, una piazza, una processione, miriadi di insignificanti, ma necessarie, comparse. Che non amo te, te l’ho detto già. Toglierò dalla nostra raccolta il tuo viso, ci sarà un buco circolare su ogni stampa. Come una serie di francobolli annullati: abbiamo viaggiato, siamo stati utilizzati, siamo ormai da collezione. Pronti per essere immersi in una bacinella d’acqua calda e staccati dalla busta che ci contiene. Pronti per essere messi sotto vetro e catalogati. Sotto la voce ‘annulli filatelici’ infine finiremo. Con una didascalia che altro non è che un necrologio, l’annuncio funebre, una frase fatta prima del sipario finale. Ne danno il triste annunzio l’immaginazione e la libera interpretazione. Noi due, vittime del nostro stesso lavoro. Due righe sintetizzeranno, senza persuadere, il nostro vissuto. Nati, cresciuti, incontrati, morti, ancora viventi. Abbiamo perso nell’esatto istante in cui abbiamo deciso di passare dall’altra parte dell’obiettivo, cedendo alla condivisione e alla vanità. Da controllori a controllati nel breve volgere di un click. Partiti per documentare il mondo, ritornati con una catasta di primi piani e migliaia di sfondi funzionali ai nostri abbracci. Che non ti odio per questo, ma non ti amo neanche più. E forse mai prima d’ora. Che preferisco le cose che non si devono agitare prima dell’uso, come la birra che sto mandando giù. Mentre tu, lontana finalmente da me, sei ritornata forse ad azionare compiutamente l’otturatore, rimettendoti in secondo piano. Ché la solitudine ci riporta alla penombra delle camere oscure. Ci siamo fatti tentare, lasciando che i soggetti inconsapevoli diventassimo noi. Facendoci da fotoreporter, attori. Ma né io né te siamo roba da fotoromanzi, quello che tenteranno di fare schedandoci non gli riuscirà. Ogni pellicola porta dentro una storia che difficilmente dalla carta patinata trasuderà, non ci avranno mai. Ti difendo dagli altri ma non da me, nessuno potrà maledirti se non io. Che continuerò a non amarti seppur facendoti da scudo. Degli estranei decideranno per noi, daremo loro l’importanza che non meritano e che essi stessi non chiedono. Li investiremo di una responsabilità enorme, ma spassionata. A loro, del nostro cuore, in fondo, non interessa. Tutte le persone che, appellandoci al diritto di cronaca, abbiamo subdolamente raggirato, adesso decreteranno su noi. Coloro che erano semplici porzioni di umanità di passaggio, puro elemento coreografico, si faranno giudici e despoti. Ci siamo condannati, dando un fucile in mano alle nostre vittime. Abbiamo definitivamente perso ogni privilegio, ogni posizione dominante. Solo due cose, oggi, mi restano: una carta d’imbarco e un biglietto chilometrico.
Non l’amore, men che meno tu.