Tutti i vantaggi del profilo basso

Dobbiamo stare attenti a non essere felici da far invidia.
Sai è un periodo particolare
c’è la crisi mercantile,
la gente non sta bene,
va di moda soffrire.

Dobbiamo stare attenti a non mostrarci contenti in pubblica piazza.
Ci scambierebbero per matti,
qualcuno poi ci prenderebbe in giro.
Le persone si sentono autorizzate a prendersi di confidenza con chi scherza.

Dobbiamo dunque badare bene a non stare troppo bene.
Ricordiamoci di piangerci addosso ogni tanto,
se possibile rinunciamo a qualche viaggio.
Lamentati di me con le tue amiche di quando in quando.

Va di moda la prudenza,
sono gli anni dell’invidia e della gogna.
Faremmo meglio a mantenere un profilo basso,
più che altro per rispetto.
Essere felici soltanto tutto il tempo.

Come due esaltati pazzi,
essere semplicemente da ricovero;
felici da fare vomitare i gatti.

Contratti di affetto

Abbiamo un nuovo nato in famiglia: è arrivato ‘Contratti di affetto‘, mia nuova raccolta di racconti.

Ci troverete dentro qualche pezzo di questo blog e più di un pezzo di me.

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Grazie in anticipo a chi vorrà leggerlo, regalarlo e commentarlo.

copertina isi.png

Dove sono quando posso

Io sono con le persone sintonizzate su un altro canale la sera della finale mondiale,
trasmettono Italia Brasile,
con gli allergici al centro commerciale.

Io sono con i single di provincia a quarant’anni,
con chi ai pranzi di Natale non risponde più alle domande,
gli esclusi ai discorsi dei grandi: le persone più interessanti.

Sono sugli autobus che alle sette di martedì sera vanno dal centro fuori dal raccordo,
nelle stazioni dove l’alta velocità non si ferma,
dentro le case sui bastioni del porto di Vittoriosa a Malta.

Sono con chi passa l’estate tra Reggio Emilia e Parma,
con chi cerca una rosticceria aperta la sera di Pasqua,
sono in macchina con chi non ha famiglia.

Sono con le donne e gli uomini solitari e soli,
gli indifferenti alle mode del momento.
Fermi a una domenica pomeriggio del tardo Novecento.

Non sono un predicatore,
un novello Gesù bambino,
sono ovunque c’è una storia particolare,
risalgo il fiume controcorrente.

Non sto ostinatamente con la minoranza,
ma con chi poco o nulla gliene importa.

La sera coglioni e la mattina leoni

Avrei voluto conoscerti prima,
quando andavo ai concerti,
ascoltavo le canzoni deprimenti,
credevo alle leggende metropolitane
e ai sogni,
riuscivo a dormire fino a tardi,
bevevo fino a rischiare di rompermi i denti,
saremmo stati perfetti.

Avrei voluto conoscerti prima,
prima di visitare città importanti,
scoprire insieme patroni e visconti,
rinfrescarci dal caldo con gli idranti,
bere una birra gelata con gli studenti,
chiamare per scherzo il servizio clienti,
fare l’amore dentro l’università sui pavimenti,
ma ogni età hai i suoi miti e i suoi santi.

Avrei voluto vivere con te gli anni migliori,
dai 25 ai 30.
Sempre insonne, senza mai stancarmi,
bruciare, ridere, fottermene degli impegni,
ma forse ci saremmo consumati in fretta.
Oggi saremmo nella lista dei rimpianti.

Avrei voluto conoscerti prima,
per non correre il rischio poi di non conoscerti più.
Giocarmi le mie carte, perderti,
stramaledirti, dimenticarti.

Ascoltami, guardaci: non ci siamo persi niente,
siamo in tempo a fare tutto.
Prenderci il mondo andando a letto presto.

Il monumento ai cretini

C’è un aereo che parte ogni sera per Lisbona
con due posti vuoti.
Va avanti e dietro così da un anno e tre mesi.

Te lo immagini l’aereo strapieno con due sedili liberi?
Fila 21, posti A e B, sempre gli stessi.
Nessuno che può sedersi o sistemarci i cappotti.

Il lato finestrino che piace a te,
quello in mezzo che fingo di preferire
per fare contenta te.

Fortunato chi ha il posto accanto al nostro.
Pensa quanto spazio per gomiti e ginocchia,
e nessun rischio di chiacchierate moleste.

C’è un aereo che decolla ogni sera implacabile
dal terminal 3 di Fiumicino,
prende la rincorsa e parte senza più aspettarci.

Le hostess hanno smesso di fare gli annunci,
l’altoparlante non chiama i nostri nomi,
i viaggiatori abituali neanche fanno più caso a quel buco.

Da qualche mese su quei sedili
qualcuno ha iniziato a lasciare bigliettini e fiori.
C’è chi si ferma per una preghiera.

Due posti davanti ai quali tutti rallentano e abbassano gli occhi.
Un memoriale ai viaggi mancati, ecco cosa è diventato:
il ricordo di chi doveva partire, ma è rimasto a terra.
L’eterno monito a non rimandare nessun appuntamento.
Partire subito o fare la nostra fine.

Il monumento improvvisato a quello che potevamo essere
e non siamo stati.

I paraggi di Parigi

I paraggi di Parigi,
il pareggio di bilancio,
Paul Varlaine, Gustav Jung, Marlon Brando.

Quanti accenti, quante storie, quanti sogni.
Pensa se l’ultimo tango lo avessero girato a Perugia.

Una coppia risale le scalinate di Montmartre:
non lo sa, ma sta andando verso il mare.
Impavidi, senza costume e asciugamano:
siamo forse noi?

Baci sulla tomba di Oscar Wilde,
spari nella pancia dell’Europa.
Non avrete mai il mio odio,
non avrete mai il mio odio,
non avrete mai il mio iodio.

Cosa sarebbe con il mare Parigi?
Forse Barcellona, forse Danzica, magari Genova.
Il porto avrebbe rovinato tutto.

I parigini con le spiagge non avrebbero costruito niente,
il caldo rilassa, il lungomare sostituisce i parchi.
Le città di costa con la scusa del mare
sono tutte cementificate.

La Sorbonne, le baguette sotto le ascelle,
5 giorni e non ho visto nessuno baciarsi:
città dei single altro che dell’amore.

Il primo maggio a Parigi.
La rive gauche, la rive droite,
la Senna che ci scorre in mezzo.

Di chi è la Senna?
Dei poeti, degli studenti o dei capitalisti?
La Senna è mia che non voglio nessuna etichetta.

Lunga vita alla Senna!

Malaussène, Belleville, i Campi Elisi,
le femen, la Le Pen, le collezioni Hachette,
le pâtisserie che vendono i Mac(a)ron.

Hemingway, Verlaine, Zola, James Joyce,
Baudelaire, Baudelaire, Rimbaud.
Dov’è sepolto André Gide?
Né a Père-Lachaise né a Montparnasse.

Vedi Parigi e poi non muori,
vedi Parigi e non ti muovi,
Vedi Parigi e poi come fai a vivere altrove?

I paraggi di Parigi,
i poeti che sono vissuti a Parigi,
gli artisti che l’hanno fatta grande,
i cittadini che l’hanno protetta,
i parigini per tre giorni o cinque.

Io e te seduti per sempre ai piedi della Tour Eiffel,
come una vecchia coppia americana, turisti comuni,
schiacciati dal peso della storia e dagli acciacchi.

Vivi ancora per poco.

Partiti dalla periferia del mondo,
per scoprire come si vive,
nel posto migliore della Terra,
il giorno prima di salutarla.

Prendere o lasciare

Ti lascio dieci volte al giorno,
in media una volta ogni ora e mezza,
spesso neppure lo sai, ma succede.

Ti saluto/chiudo/prometto di non chiamarti,
sta diventando una cosa preoccupante,
credo che dovrei darci seriamente un taglio.

Perché lo faccio sul serio,
mi dispero, mi incazzo, non mangio.
Ti lascio per vedere l’effetto che fa.

Mi lasci undici volte al giorno, una in più di me,
ogni volta che scopri si trattava di uno scherzo,
mi reggi il gioco o ti arrabbi per davvero?

Continuo a lasciarti ogni pomeriggio,
spengo il telefono, mi addormento, dormo di merda,
ti sogno e mi sveglio devastato.

Urlo, sbatto la porta, ti maledico,
giuro di non chiamarti, piango,
lo racconto ai miei amici,
ascolto canzoni tristi,
posto frasi patetiche,
giuro che ti dimentico, mi pento,
provo a chiamarti, chiudo subito,
guardo il telefono, guardo fuori,
rileggo i messaggi, scrivo, cancello,
lancio il telefono sul letto,
mi tengo la fronte con una mano,
ricomincio a piangere, tiro su col naso,
provo a dormire, mi rigiro nel letto,
mi sollevo, sprofondo,
mi copro col piumone, inizio a sudare,
tiro fuori le gambe, metto la testa sotto al cuscino,
sento una vibrazione, cerco tastoni il cellulare,
rovescio il bicchiere, allago il comodino,
guardo la lista delle chiamate, era un’allucinazione,
tiro un calcio al piumone,
basta ti scrivo.

Ritorno sui miei passi come un coglione.

Conosci forse un altro modo di alimentare l’amore?

Roma

La linea della tua gamba,
il polpaccio che regge il peso del tuo corpo,
i fianchi stretti.

Il quarto dito del tuo piede,
i tuoi bicipiti, piccoli e definiti,
i capelli chiari.

Il naso che si schiaccia quando ridi.

Tu che dormi di lato.
Gli occhi verdi,
i denti bianchi,
le mani piccole e gli addominali forti.

I tuoi passi brevi e veloci.

La borsa grande,
le spazzolate forti alla mattina,
il neo dietro al ginocchio.

I miei occhi fissi sulla strada,
tu che mi fai le boccacce,
io che faccio finta di non vederti,
i binari della metro ancora caldi.

Tre minuti e siamo a casa nuova.
Sei anni insieme, ma sembra la prima sera.

9 novembre 1999

Odora di Novecento questo novembre /
Tutti i novembre puzzano di Novecento.

Le facce che ho visto,
le storie che ho dimenticato,
buchi della memoria che un tempo erano questioni di Stato.
Basta un cognome o una via per evocare mondi che credevo estinti.

È la Mitteleuropa a chiamarci dal fondo alla strada,
la borghesia ha gettato al vento la sua occasione storica,
Francesco Giuseppe reclama di nuovo il suo regno.
Budapest, Bratislava, Vienna, fin sopra i monti dell’Herzegovina.

In quest’incrocio sgombro di carri armati,
dentro i deliri di una febbre spagnola,
rivivo nitidi i fasti dell’Occidente.

Il secolo breve, gli amori lunghi,
quarant’anni insieme /
non cinquanta notti.

Un inverno che ancora faceva paura /
calosce, colbacchi e calzamaglie di lana.
Nel duemila si ambientavano i romanzi di fantascienza.

Cadono i muri,
festeggiano i mercati /
popoli divisi che unendosi tornano ad odiarsi.

Soltanto la lontananza riscalda i cuori.

Niente più lettere da affrancare,
attese che allungano gli amori
e baci promessi nei telefoni a gettone.

Non credo alle coincidenze

Ho scoperto che il tuo gomito
entra perfetto nella mia mano,
che se chiudo pollice e indice
formo una manetta intorno al tuo polso.

Ti dichiaro in arresto per attentato
alla mia civile convivenza.

Mi sono accorto casualmente
che il tuo braccio calza perfetto nel mio,
i nostri nasi si equivalgono.
I nostri profili uniti formano una faccia.

Sembriamo un’illusione ottica,
ma siamo reali.

Ho fatto caso che i tuoi occhi
arrivano all’altezza del mio mento,
sollevandoti sulle punte
mi arrivi giusta alla bocca.

Com’era quella poesia sui ragazzi
che si baciano in piedi?

Mi sono convinto a furia di guardarti
che il destino non esiste,
succede tutto per caso.

Che Dio fa gli uomini,
ma poi tocca a loro accoppiarsi.
Nessun futuro è scritto nelle stelle.

E due come noi,
checché ne dicano astrologi e benpensanti \
non possono a lungo sfuggirsi.

Futuro interiore

Che fine hanno fatto i letti
di quelle stanze dove facevamo l’amore
il secondo e terzo anno di università,
i copriletto da cameretta per bambini
e le posizioni improbabili,
i movimenti impacciati,
ci pensi mai?

Dove sono finiti i giorni passati,
gli aerei dai quali siamo decollati,
le hostess coi cappelli tinti di verde,
i camerieri-studenti dei pub di Dublino
hanno infine trovato un lavoro dignitoso?

Dove vivono oggi gli Erasmus di Siviglia,
la classe ’83, le sue leggende metropolitane
e i suoi sogni;
le eterne promesse calcistiche di chi,
quell’anno, sarebbe finalmente esploso.

È tutto perso,
come un fiume che scorre verso il mare
e non può risalire?
Le tazze sporche di caffè,
lo zucchero rimasto dentro la bustina.

Dove sono adesso quei modi di vivere e pensare?
L’imbarazzo della matricola e la supponenza del laureato.
Quel passato, ogni singolo bacio, i fiori calpestati per sbaglio, salti in braccio a tua madre, imparare ad andare in bici, togliere una rotella, cadere, il bruciore allo stomaco quando sentivi il tuo cognome.

Porte della nostalgia,
tunnel spazio-temporali che si aprono la domenica pomeriggio.
Domande senza risposta, sgambetti del passato,
occhiolini della tristezza,
dai quali per sempre /
questo è certo, ti proteggerò.

Romanzo di formazione

Avevi 6 anni nel 1993,
io 11,
una musica suona alla radio Let’s come together /
dove andiamo tutti?

Davvero non lo sapevamo.

Noi due bambini,
due tra i diecimila della nostra città,
Quanti scontri, quale destino, quali i mostri?
Chi le vittime, chi i carnefici, tra noi?

A giro tutti.

Grembiule blu, grembiule rosa
piccolo esercito di tabule rase /
quali strade prenderemo?
Dove e quando ci parleremo mai da persone adulte?

Succederà?

Io e te, giorni tutti uguali,
infinite dosi di inconsapevolezza /
non come ora.

Quante volte ci siamo incrociati in quella vita?
In che punti ci siamo già attraversati?
Io e te, adesso esseri senzienti /
nel tempo assassini, amanti, oppressori e oppressi.

Ora uno di fronte all’altro,
tutti i nostri peccati sono stati rimessi.

Un filo invisibile ci ha sempre legato.
Pensavamo di scappare e invece ci rincorrevamo.

Dentro traiettorie lunghe un quarto di secolo:
eravamo infine destinati a questo stesso punto.

Termina qui questo inseguimento,
finisce un’epoca /
inizia la nostra storia.

Il terzo mese dell’estate

Mi ricordi la primavera la sera del 22 settembre,
un’alba lontana duecento notti.

Porti l’estate con una pioggia torrenziale,
fai tracimare i fiumi,
allaghi le strade.

Mi consegni il mare proprio sotto casa.

Ricordi sensazioni mai vissute,
speranze che avevo ormai dimenticato.

La campanella del giovedì,
una vacanza nella mezzora dopo che l’hai prenotata,
Santo Stefano in rosso sul calendario,
il ripristino delle comunicazioni.

Sei la medicina senza controindicazioni,
una ricetta scritta in italiano leggibile,
l’antibiotico che fa effetto,
l’annuncio della guarigione.

Sei tra i volontari che arrivano ad emergenza finita,
quelli che scavano a riflettori spenti.
La prima pioggia autunnale che lava le foglie.

Sei un’isola al contrario:
uno specchio d’acqua in mezzo ad un mare di sabbia.
Fai ritornare il verde nei prati.

Somigli ai primi venti giorni di settembre,
una stagione virtuale:
il mese meno commerciale dell’estate.

Capodanno

Arriva l’autunno dentro al supermercato,
fuori c’è il temporale che spezza le stagioni,
ci siamo ritrovati tutti qui per caso.

Siamo bagnati, lo sguardo sconvolto,
molti in ciabatte, alcuni ancora in costume.
Siamo quelli che al tg chiamano i sopravvissuti.

C’è una cascata dentro il banco degli affettati,
le mozzarelle viaggiano veloci verso la cassa,
il freddo oggi più freddo del banco surgelati.

Cosa ci manca qui, tra cibo e ammorbidenti,
Tra donne dal trucco sfatto e uomini di casa?
A ben vedere niente.

Potremmo fermarci,
riprendere da dove abbiamo interrotto lo scorso maggio,
riscoprirci finalmente adulti.

Ricomincia la vita dentro al supermercato,
cambiano le disposizioni degli scaffali,
è così che passa un altro anno.

Tra sughi pronti e pane in cassetta,
ci rincontriamo.
Alcolici e infradito stanno in un angolo.

Io e te, lontani dalle illusioni dell’estate,
davanti all’ampia scelta di sughi pronti,
pronti per il nostro cenone di capodanno.

Che pensi del pesto senza aglio?

Clint Eastwood senza sigaro in bocca

Quando ti svegli la mattina lo fai tu sola,
non tutto il vicinato.

Gli uomini che ti hanno amato,
quelli che ti desiderano adesso.
Quelli che ancora si girano a guardarti per strada.

Porti il tuo corpo al lavoro,
ligia e pettinata, quasi sempre controvoglia.
La tua mente dov’è?
Non banalmente al mare, come tutti gli altri.

Non ambisci ad una una vacanza perenne,
non cerchi l’anima gemella,
l’uomo che ti tiri fuori dai guai.

Sfrecciando a 150 chilometri orari o imbottigliata nel traffico /
non ti capita mai di pensare alle altre vite possibili.
Hai smesso di immaginare e soffrire,
hai perso per strada la parte peggiore della fantasia:
quella che non fa godere il presente.

Sei un manuale tecnico-industriale tradotto dal tedesco,
verticalizzi e badi al sodo.
Non fai poesia.

Sei nel posto in cui ti manifesti,
presente a te stessa, non distratta,
mai altrove.

Mangi, lavori, leggi, dormi.
Sei la più contemporanea tra tutti i presenti.

Clint Eastwood senza sigaro in bocca.
Ti concedi fermandoti sulla porta.

Non ti sporchi inutilmente i pensieri,
mi somigli.

Questa faccia della medaglia

Esiste un sole che asciuga i vestiti che devi mettere stasera,
una pioggia che ripulisce l’aria dalle polveri sottili,
un vento che spalanca di prepotenza le finestre.

Esiste un mare dove è impossibile affogare,
un vuoto che non spaventa chi si sporge,
vette dove si respira a pieni polmoni.

Ci sono distanze che alimentano i sentimenti, non li intiepidiscono,
deserti nei quali perdersi o soffrire la sete è impossibile,
notti senza luna dove orientarsi è più semplice.

Tu sei lì,
dentro quei raggi che non bruciano, nella pioggia che non sporca,
nel vento che non fa sbattere le porte.

Non nei naufragi, nelle vertigini, nell’abitudine, nella paura.
Sei dentro ai pro, non nell’altra faccia della medaglia.
Sei il rimedio, non la controindicazione.

La parte buona del mondo,
il coraggio dentro la paura,
l’aspetto positivo delle cose.

Dio è un architetto

Dio è un architetto,
guarda la linea d’orizzonte se non sei convinta.
A mano libera o con un righello lungo un paio di ettari:
è di una perfezione che disarma.

Sì, Dio deve essere un geometra o un architetto
– magari ha semplicemente usato un compasso –
ha progettato tutto questo e si è nascosto.

Si è rifugiato in un angolo remoto, dentro un’oasi,
magari in una casa popolare.
Si gode lo spettacolo senza essere visto.

Più o meno come hai fatto tu:
che da qualche parte di questo mondo malconcio
ti sei cacciata.

Hai messo l’acqua alle piante, colorato le pareti,
piegato le mie maglie
e sei scappata.

Amandomi per sei giorni,
scomparendo di domenica,
come Dio con Adamo ed Eva:
restituendomi alla vita.

L’amore rende cieli

L’amore rende cieli, me lo dicevi sempre tu.
Mi tiravi indietro i capelli
poi ti voltavi dall’altro lato.

In radio passavano i Cure,
dormivamo tutta la notte attaccati,
ad ogni risveglio ci baciavamo senza prima lavarci i denti.

Nel frattempo sono passate due o tre stagioni,
in mezzo c’è stato un inverno senza pioggia.
Una pila di maglioni variopinti che non ho mai indossato.

Giorni in cui ho scomposto il tuo sorriso in 5000 pezzi,
come un puzzle all’incontrario.
Infine ti ho riposta nel baule dei giochi in soffitta.

Ogni mattina ho provato a sbirciare sotto al tuo cappello,
orologio in mano, sincronizzando i tuoi movimenti ai miei.
Domandandomi se mentre dormi respiri o ancora sogni.

Ho abbracciato il mondo in tua assenza,
sono diventato un santo.

Allontanandomi da te ho capito che l’amore poco c’entra
con lo spazio e il tempo.

È il paradiso dei vivi ciò cui ambiamo,
una beatitudine che neanche di un giorno possiamo più rimandare.

Q

Esiste un solo uomo in grado di resisterti:
quello morto.

Gli unici che riescono a salvarsi /
fortunati o dannati, dipende dai casi,
sono quelli che non ti conoscono.

Il mondo si sposta in funzione delle tue pupille,
ci muoviamo tutti dentro il tuo campo visivo.
Corriamo da una parte all’altra della strada.

Esistiamo soltanto lì,
ci materializziamo nel momento in cui ci guardi.

Sposti le persone con gli occhi,
soffri di sordità selettiva:
non riesci a sentire le banalità.

Non parli quasi mai, non ti concedi mai, disponi, arricci la fronte e assumi un’espressione disgustata, non sorridi lo stesso quando non capisci le battute, socchiudi gli occhi e osservi a distanza con l’aria di chi la sa lunga, fumi 6 sigarette l’anno, dividi il vino dai solfiti, rimani a 4 metri di distanza da qualsiasi cosa respiri, se il tuo interlocutore si avvicina fai un passo indietro /
c’è un’aurea mistica intorno a te, chi prova a toccarti rimbalza /
non appartieni a questa generazione,
in automatico ti si associa ad un altro universo/
vieni da un futuro che ancora non è stato scritto,
nulla ti appartiene e nulla ti turba /
chi riesce ad afferrarti lo fa per un attimo:
è la sua ultima azione su questa terra.

Nulla di significativo merita di sopravviverti,
ti basta chiudere gli occhi
e la razza umana si estingue.

Aurora boreale

Quand’è che ha fatto buio?
Da quanto tempo non c’è luce?
Che ore sono?
Quanto ho dormito?

Le notti lentamente si accorciano,
le ombre si allungano,
allargo le braccia e stringo le palpebre.
Mi giro su un lato.

La mente si riassesta,
nessun panico,
il cuore rallenta.

Torneranno i pomeriggi di sole,
la primavera – ferma ci aspetta,
avanziamo su un binario vivo.

Non avere paura:
lo senti anche tu l’odore dell’aria che lentamente cambia?

Spariamo bene

Mi hai letto nel pensiero quando mi hai chiesto di sedermi accanto a te.
Mi alletto nel pensiero ogni volta che ti penso.
Uso troppi pronomi personali.
Ci metto del personale anche se ti rivolgi a me col tu generico.

Saremmo dovuti nascere in un’epoca in cui era possibile sparare impunemente,
è questa la verità,
difenderci così dai bigotti e dai malintenzionati.
Sparare ogni piè sospinto,
sparare e sperare di fare centro al primo colpo.

Ci saremmo dovuti piazzare dietro le finestre del nostro ranch fortificato
e aprire il fuoco ancora prima di chiedere chi è.
Uscire solo per cercare l’oro,
far fuori gli altri esploratori e setacciare il fondo del fiume.

Dovremmo vivere così io e te: rifiutando il contatto umano,
difendendoci col DDT.
Eliminare prima e seconda persona singolare
e affidarci incondizionatamente l’uno all’altra.
Imboccare fiduciosi la via delle Montagne Rocciose.

Migrare a noi.
Quanto prima,
e in modo definitivo,
lasciarci andare.

Irpef, Imu, Amo

La luce e il gas sono come l’amore:
il conto arriva sempre dopo.

Saldo il conto dell’elettricità di settembre/ottobre,
nel frattempo mi sono innamorato e disinnamorato un paio di volte.

La vita va avanti.

Quanto sono ingenue le bollette /
nonostante i loro calcoli implacabili e precisi?

Credono di conoscerci, sapere tutto di noi,
ma non riusciranno mai a controllarci.

Il libero mercato non vincerà mai sull’autarchia dei sentimenti.

Red Carpet

Quanto asfalto hanno visto quei copertoni abbandonati?
Quanti occhi ho visto io dopo i tuoi.

Arrossisci e ti tocchi lo zigomo con l’indice:
come fai soltanto tu in Europa.

Le canzoni tristi cosa fanno in estate?
E gli istruttori delle scuole guida si sentono in colpa
anche a distanza di anni
per un incidente mortale causato dai loro allievi?
E quante persone stanno aspettando di attraversare la strada
sulle strisce pedonali di fronte la stazione di Firenze?

Tutto resta fermo, congelato, sepolto,
e ogni cosa si riattiva a comando.
Compreso quel pudore
che si impossessa del tuo viso nei momenti più inaspettati.

Succede soltanto a certe latitudini,
in particolari condizioni climatiche,
quando, dopo averti rivolto la parola,
mi disinteresso e sposto lo sguardo,
guardo un altro,
una persona qualsiasi,
oppure proprio lui,
che non sa niente di noi
di cosa siamo stati
e di quel rossore
di cui non parlano i libri di storia,
ma noi due sappiamo esistere
e soltanto io
da qui alla fine dei tempi
saprò sempre come evocare.

32 dicembre

Porti in dote la luce del giorno ogni volta che arrivi,
quando vai via il sole tramonta al doppio della velocità:
dovresti guardarti.

L’anno vecchio aspetta te per accomiatarsi,
il nuovo ha bisogno del tuo permesso per iniziare.
Attendono un tuo cenno gli uccelli migratori,
gli orsi per entrare in letargo,
la neve per iniziare a fioccare.

Madre Natura, ogni giorno alle 4, prende lezioni da te.
Passi e gli alberi smettono di respirare.
Le pietre si scansano, i gradini si appianano,
la goccia di rugiada si blocca sulla punta della foglia.

Sono ormai anni che non riesci a fare un bagno al mare:
le acque si aprono appena provi a entrare.
Trattiene il fiato il mondo intero in tua presenza,
si sente chiaro il rumore dei nodi in gola.

Senza voler minimamente esagerare,
pendono dalle tue labbra i tre quarti delle terre emerse.

E quando muovi le labbra e mi parli,
quando decidi di concedermi attenzione,
posso solo immaginare quello che dici.
I miei timpani sono ovattati dall’emozione.

Io immobilizzato,
pietrificato dentro un mondo assorto,
vivo ma con il cuore fermo,
unica persona a vederti indifesa, dormirmi accanto.

Verde antico

Il verde nelle foto da piccoli,
che fine fa quel verde?
Per chi è?

Gli alberi, le siepi, le piante nei cortili,
che fine hanno fatto quei fiori?

Mi ha sempre incuriosito lo sfondo delle foto,
la natura selvaggia: i cespugli, le scarpate,
le erbacce ai bordi delle strade.

Tutto ciò che svanisce presto,
non si salva né ambisce a essere tramandato, dura una stagione.

Quel contorno rassicurante e sfocato:
niente più che il mondo dentro il quale sorridevamo.

La Maga Cyrce

Mi hai spezzato il respiro in più punti,
mi hai provocato una frattura scomposta del fiato,
ho la trachea esposta: le parole mi escono fuori dal petto.

Quante volte ho pensato di essere sul punto di morire?!
Questa è una di quelle:
ti sei appena staccata dal mio corpo.

La immagino così la fine:
un momento di lucidità in cui tutto ti è chiaro.
Poi la tua mano, di nuovo, mi ha toccato.

Succede sempre più spesso ultimamente /
che mi salvi da morte certa.

Mi richiami dal precipizio come fosse naturale,
per riportarmi in vita ti basta stringere leggermente le palpebre
a mo’ di ipnosi.

Arrivano i berberi

Ho scoperto che il sole sorge anche se non mi scrivi un messaggio all’alba,
che può essere una buona giornata pure senza il tuo buongiorno.
Che l’acqua sul viso mi sveglia anche più e meglio di un tuo bacio.

Ho scoperto che i listelli del parquet davanti alla finestra sono ventidue
e non infiniti come quando vado avanti e indietro mentre aspetto una tua chiamata.
Gli alberi del viale sotto casa,
li ho contati sollevando gli occhi dal telefono:
sono undici.

Ci separano mille chilometri e non tre universi e mezzo,
al nostro appuntamento mancano dieci giorni e non sette anni.
Riuscirò a fare la spesa, il pieno alla macchina, sistemare il letto, respirare,
anche senza il tuo aiuto.

Mi sono reso conto come svegliandomi da un lungo sogno in cui ero cosciente
che esisti davvero,
posso sollevare il piede dall’acceleratore,
smettere d’immaginarti.

Ho capito che ci sei anche quando non ti vedo,
che esisti anche quando non ti sento.
Questa cosa invece di agitarmi, mi consola.
Strano.

Dopo millecinquecento anni di resistenza,
posso finalmente abbassare le difese.
Aprire le porte della città.

Rimedi naturali

E quindi:

Mi sono cambiato i vestiti
Fatto la barba
Accorciato i capelli
Messo in lavatrice le lenzuola
Innaffiato le piante
Provato a distrarmi leggendo un libro prima di dormire
Bevuto acqua e limone la mattina appena sveglio
Scritto tutto quello che mi passava per la testa
Mangiato frutta prima e non dopo pranzo
Fatto una doccia fredda
Dormito dalle quattro alle sette oggi pomeriggio
Rincoglionito che non capisco neppure come mi chiamo

Niente da fare,
non sono guarito:
ti amo ancora.

(∂ + m) ψ = 0

Due come noi sono sul mercato una settimana ogni sette anni
oppure rimangono soli per tutta la vita.

È bianco o nero,
tutto o niente,
nessuna via di mezzo.

Due come noi amano per sempre o neppure iniziano,
non credono all’amore eterno eppure non si disinnamorano mai.

Non sottostanno a indecisioni o tentennamenti,
una volta partiti /
indietro non ritornano.

Altri due come noi – che non si stancano,
noi non li abbiamo ancora incontrati.
Semplicemente perché non esistono.

E adesso che come due schegge impazzite lanciate nell’interspazio siderale, due atomi partiti dagli esatti opposti dell’universo e passati attraverso – sopravvissuti a – tempeste cosmiche, buchi neri, uragani di comete ed esplosioni solari,
adesso che ci siamo trovati, siamo uno di fronte all’altra, che ci siamo scrutati il tempo di annusarci, di interrogare il fato e il destino se fosse o meno il caso di fidarsi, di convincerci fino in fondo fosse tutto vero,
adesso che ci siamo contaminati, condizionati per sempre,
adesso noi due, creature di un altro tempo e di un altro universo mondo,
adesso cosa dovremmo farne del nostro incontro?

Scontrarci e rimbalzare all’altro capo della galassia
o mescolarci, combinarci, amalgamarci, fonderci, ogni giorno fino alla fine dei tempi?

Marlene Tunz

Esiste un tempo per caricare e uno per scaricare.
Un tempo per piangere e uno per ridere.
Un tempo per leggere e uno per vivere.
Un tempo per crogiolarsi nel dolore e uno per reagire.

Esistevo io prima di conoscere te.
La stretta che mi ha fatto saltare il battito.
Gli occhi che da allora mi porto dentro.

Improvvisamente non assomigli a nessun’altra.
Ti osservo e sembri l’unica donna che io abbia mai visto.
Spalanchi le palpebre, mi guardi e si oscura il sole.

E fra noi che nulla è iniziato,
perché non è mai finita,
ricomincia in un istante.

Dura da sempre.

Chi ti ha vista?

Ti amo dal secondo momento in cui ti ho vista,
il primo l’ho impiegato a ripristinare le mie funzioni vitali.
Rianimare il cuore, spannare la vista, chiudere la bocca.
Levarmi quell’espressione ebete dalla faccia.

Ti penso e mi incanto,
se non sto attento mi scende la bavetta.
Cammino a occhi bassi, non guardo le altre,
ho le palpitazioni quando non rispondi, ma chi sei?

Ti cerco ad ogni angolo di strada,
supero l’incrocio, mi volto di scatto e spero di trovarti.
Alzo lo sguardo sui balconi, sollevo le botole, chiedo ai passanti.
Tutti a dire che non hanno mai visto una come te.

Ti amo da secoli,
Ti amava la mia maestra delle elementari,
c’eri tu dietro la lite col mio amico immaginario.
Ti ho amata nel pianto del primo giorno di scuola.

E ti amavano i miei antenati,
i calcidesi che hanno colonizzato Reggio,
i visigoti che l’hanno saccheggiata.
Ti amavano i normanni, gli ottomani e i saraceni.

Sei stata motivo scatenante di devastazioni,
guerre, assedi, pestilenze e carestie.
Ti amavano uomini storici, papi, santi, letterati e re,
ti davano la caccia da anni, più del Santo Graal.

In tutto questo tempo,
nei secoli e nei pomeriggi che monotoni si sono intervallati,
mentre ti invocavo più dell’acqua nel deserto con un pugno di sale in bocca,
di grazia,
dove diavolo sei stata?

L’assedio di Corinto

Sei le domeniche pomeriggio di paranoia,
i sabati sera buttati nel cesso,
quelli che esci in branco per non avere altro da fare.

Sei tutti i miei ‘no’,
le volte che ottusamente mi sono negato,
le estati passate ad aspettare la grande occasione.

Eri nelle mattinate trascorse a letto,
nella voglia di non alzarmi,
nelle notti che ho passato violentando il sonno.

Eri dentro i giorni che si sono stancamente susseguiti,
pagine dell’agenda piene di appuntamenti di lavoro,
ore che ho sperato passassero in fretta.

Eri nel tedio, nell’angoscia, nei turni di notte all’ospedale.
Nel sangue delle gengive e nel rifiuto di ogni contatto.
Eri nelle tempeste che ho superato, nel faro che non sapevo di seguire.

E sono qui, a smontare una corazza fatta di solitudine e intransigenza.
Tengo l’elmetto sotto braccio, vengo da una sanguinosa battaglia.
Ho i capelli sulla fronte e del sangue rappreso sulle mani.

Non sono un bello spettacolo,
sei tu la mia ricompensa, aspettami:
l’unico motivo per cui non sono morto.

La seconda guerra mondiale e mezza

Provocano esplosioni nucleari i tuoi piedi sulla battigia,
funghi atomici che si sollevano al tuo passaggio.
Emergi dall’acqua e sembri dichiarare guerra al mondo.

Con una come te a fianco partirei alla conquista dei Dardanelli.
Risvegli i miei sopiti istinti imperialisti.
Io e te di stanza in un campo ai confini del deserto.

Partiamo per la campagna d’Africa.
Noi, vittime della Storia.
Tu arma di distruzione di massa ed io recluta inconsapevole.

Arrivi, ti sdrai accanto a me,
spingo un bottone sulla tua schiena e tutto intorno si spegne.
Parte il conto alla rovescia:
finisce la vita sul pianeta Terra, inizi tu.

La guerra che porta pace, serenità e bellezza.

Come quando cuori piove

Il mio amore è una fonte che non si esaurisce /
non finisce.
Non scade, non si deteriora, resiste.

Il mio amore non è infinito,
dura quanto me,
non un giorno in più.

Il mio amore si espande, crea mondi,
riempe i buchi neri,
esplora gli universi tra le stelle.

Il mio amore è lucido, razionale,
ha la sede principale nella mente,
dura, resiste alle tempeste, non deperisce.

Al cuore si può comandare.
Stai alla larga da chi sostiene il contrario.
Per quello che mi riguarda garantisco personalmente.

Pura vita

E domeniche anni Novanta /
vivere per vivere.
Nessuna foto, non una testimonianza, zero condivisioni.

Disorientamenti temporali /
che giorno è?

Tu che ti avvicini,
le nostre gambe zampe di un animale marino estinto da millenni,
i tuoi fianchi cloche di un aereo supersonico,
io che non posso fare a meno di ridere le volte in cui provi ad essere seria.

Gli occhi bianchi, la pelle nera, gli ombrelloni a righe,
il bacino a vista.
La vita, vera.

È ogni giorno domenica agosto,
nessun lunedì cui rendere conto.
Una messa in scena infinita:
Io il prete,
tu l’acquasantiera.

Ad ogni agosto

Potrei aver bisogno di fare l’amore con te quest’estate.
Te lo dico avanti.
Tieni il cellulare a portata di mano,
la connessione attiva, il cuore a vista.

Potrei sentire la necessità di vederti, parlarti,
pendere dalle tue labbra,
farmi maltrattare.

Per un progetto che sto curando,
potrei esser costretto ad amare.
Mi serve una cavia.
(Non ti piaceva fare volontariato?)

Quindi se provo a chiamarti / negati,
non visualizzare i messaggi, fammi penare.
Se ci tieni a me -se mi vuoi bene-
fammi soffrire.

Non rispondermi,
se busso implorando trattami come uno zombie: non aprirmi.
Hai la mia autorizzazione.

Come una burrasca estiva devastami,
sommergimi, oltraggiami, portami al largo,
riempimi d’acqua i polmoni.
Fammi letteralmente morire.

Quest’agosto potrei aver bisogno di te più che del mare.

Spaghetti luglio e olio

I poeti si sono estinti per colpa del caldo,
la strada è un forno a cielo aperto,
se entri in sauna va a finire che ti raffreddi,
per bollire la pasta ho messo la pentola in frigo.

Il ventilatore ha fatto vertenza sindacale,
la piscina è evaporata,
le ruote della macchina si sono fuse con l’asfalto,
il computer ha incrociato le braccia.

Il sole appostato sui tetti colpisce a morte ogni passante,
le nuvole sono in sciopero bianco,
l’aria fredda è stata respinta alla frontiera,
c’è un fon acceso che soffia sul quartiere.

Chi ha inventato l’estate non ha messo in conto la tua assenza.
Si è dimenticato di chi vive in città.
Alternative plausibili ai beni essenziali.
Al condizionatore.
Al mare.
A te.

Mar dei Sargassi

Dove vanno a morire i pesci?
Chi è cresciuto in una città di mare lo sa,
come le migrazioni delle anguille:
ogni luglio un irresistibile richiamo.

Il Mar Cinese Meridionale,
una tua risata che mi fa sussultare a chilometri di distanza,
i segni dell’alta marea sugli scogli.
Gli infrasuoni delle balene e quelli del cuore.

Non ci si abitua all’assenza del mare.
Noi due: l’acqua all’altezza dei polpacci.
Le mani sui fianchi, gli occhi poggiati sull’orizzonte,
in silenzio fare mille progetti.

Una piscina costruita sulla spiaggia,
le sdraio tasti di una macchina da scrivere,
le cabine: una gialla, una turchese, una rossa, una blu.
L’incoscienza del sogno.

Dove vado a morire io quando non ci sei.
Che non riesco ad abituarmi a un’estate senza te.

La visione della vita da vicino

Scorre un video nella mia memoria:
ci sei tu che parli, hai dieci anni /
a chi parli?

È il flash di un momento,
dove sono quelle parole?
Il tuo interlocutore è fuori campo.

Frasi perse in questo presente continuo che ci fa dimenticare chi eravamo /
Ci fa perdere pezzi.
Crolliamo.

Dove sono gli uomini di cui sei stata innamorata?
Le persone con le quali hai condiviso una serata.
Tutti a ballare nella stessa stanza,
Le luci, la musica, il sudore,
Tutti scomparsi.

Sei rimasta tu,
retta che attraversa mille punti.
Ti estendi all’infinito, speri.

Dentro quel vestitino nero,
sola, rientrando a casa per una via buia desideri.
E ancora lotti, sudi, resisti, credi.

Fato sprecato

Ho organizzato una raccolta di firme per far tornare indietro i nostri ricordi,
una petizione on-line.
Hanno già aderito la scrivania, il ventilatore, il libro che mi hai regalato e il gatto.

La vita vissuta, le mille alternative possibili,
le strade che nel frattempo hanno preso i nostri sogni:
vicoli ciechi o parcheggi in divieto di sosta.

Ti ho guardata a lungo stanotte:
la nostra storia ripulita da brutture e tradimenti.
Cercavo un difetto.
Impresa oggi impossibile.

Quanti accendini ho perso senza che fossero consumati,
così ho perso te.
Non riesco a capire dove ti sei nascosta,
come sia finita.

Metto le mani in tasca e non ci sei più.
Gli accendini che perdi sono uguali a quelli che trovi?
Questione irrisolta.

Con l’amore che non mi hai dato sono in credito.
Mi è rimasto un buono, il tuo ultimo regalo.
Negozi dove riscattarlo non ce ne sono.

Mi sento amare

Mi sento a mare quando sto con te,
perso tra i flutti, in balia delle correnti,
nuoto e non riesco a ritornare a riva.

È come se salisse la marea ogni volta che ti vedo,
scappo, ma so già di non avere scampo.
Tanto che ormai mi rassegno al destino:
tappati il naso e preparati a nuotare!

Hai dei fianchi ergonomici, lo sai?
Li afferro per tenermi a galla.
Dovrebbero farci le impugnature con le tue forme, ci hai mai pensato?
Salvagenti, manubri, forbici, carabine, penne, spade.

Mi sento male ogni volta che ci sei,
è forse questo il prezzo da pagare?
Io che brandivo la solitudine come fosse una lama,
mentre adesso solo con te mi sento immortale.

Morsi e rimorsi storici

Mi sono sorpreso a pensare a te,
quando cerco una penna dentro l’astuccio dico:
se prendo quella rossa è ancora innamorata di me.

Un biglietto non obliterato della linea urbana di Firenze,
la nuova tessera sanitaria, un mese di mare,
tre senza lavorare, un’altra estate.

Ti penso nei giorni che si allungano,
nei respiri corti, nei tramonti nascosti dai palazzi,
nell’aria condizionata che immagino di avere.

Nei cumuli di libri da riordinare,
dentro le risme vergini,
oltre l’ultima riga del foglio,
sotto il letto prima di dormire.

Ti penso e mi sorprendo:
ho pescato la penna bleu:
dopo tutto questo tempo sa ancora di te.

Egology

Ti serve il porto d’amarmi per stare con me,
non una semplice licenza di nulla osta all’acquisto.

Devi avere i requisiti psicofisici per il rilascio del certificato medico di idoneità,
fare pratica al poligono di tiro,
hai bisogno di un giustificato motivo,
una minaccia reale alla tua incolumità.

Devi tenere i sentimenti chiusi dentro un armadio come i fucili da caccia.
Carichi, a portata di mano, ma sottochiave.
Se vuoi amarmi.
Col colpo in canna: essere sempre disposta a sparare.

Ti serve un porto d’armi per stare con me,
devi fare fuori il tuo ego e dedicarti ad una persona sola.
Quindi sei pronta:
le tue dita affusolate riuscirebbero a premere quel grilletto e amare?

La Belle Époque

Amo come i russi,
non sono schiavo di niente,
le tue spalle con i capelli sopra,
non fumo da due giorni.

Giorni che racchiudi in un rigo e romanzi scritti a ore.
Ore come i motel sulla tangenziale,
decenni persi a immaginarti,
i secoli che ci separano dagli altri.

Altri che non ci devono riguardare né toccare,
ci camminiamo attraverso,
cento voci diverse in sottofondo,
uno sguardo: il tuo.

Tu che avanzi verso me e il mondo si ferma,
quindici verste vista sul Baltico, l’Inghilterra vittoriana, Caterina la Grande,
i fratelli Karamazov, le smagliature di Virginia Woolf, Edgar Allan Poe,
l’Europa tra le guerre, gli occhiali di Bill Gates, la crisi del ’29,
i tuoi occhi in verticale, la mia testa sul cuscino, la Belle Époque,
un unico lungo tempo: il nostro.

Le leggi del mercato

Quando riemergo dalle tue cosce riesco a respirare la vita.
Le infinite possibilità, essere me senza te.

Quando non ti immagino dormire al mio fianco torno a sentirmi libero.
Bangkok, Madrid, Gizzeria Lido.

Se non mi perdo sulla tua schiena, nei rovi dietro la tua nuca, ritrovo la mia strada.
Salto giù dal letto, stringo gli occhi, cambio l’aria.

Quando non ci sei tu, ci sono io.
Per salvarmi dovrei rinunciare a me stesso.
Consegnarti le chiavi di casa, spalancarti le porte dell’azienda di famiglia, consegnarti i libri sociali.

Devo accettare l’invasione se voglio vivere felice,
vendermi per stare sul mercato,
accettare il nuovo padrone per salvare i dipendenti,
abbandonarmi alle leggi del mercato universale.

Piuttosto vado a vivere in Aspromonte,
dichiaro fallimento.

Le more

Sei il bianco che resiste all’orizzonte dopo che è andato via il sole,
le facciate dei palazzi che cambiano colore.
Un polline solitario che attraversa la tangenziale.

Il rumore di fondo della strada mentre mi addormento,
la mano che afferra l’angolo del materasso,
l’ultimo barlume di lucidità,
il ricordo del mondo.

Sei il cambio di stagione che arriva il 10 maggio,
l’aria che cambia, il paese reale, il TFR in busta paga,
il mercatino delle pulci la terza domenica del mese.

Un razzo siderale in rotta di collisione con l’orbita di Plutone,
l’ultimo acquedotto su Marte,
il primo matrimonio sulla Luna,
il perno su cui ruota l’universo.

Stimoli la fantasia,
liberi l’immaginazione,
dai fiato alle trombe,
lasci rullare all’infinito i tamburi.

Sei il ricordo infantile pescato dall’inconscio alle tre di pomeriggio,
l’ottimista a trecento metri dallo schianto,
profumi l’acqua,
colori l’aria,
conservi la poesia,
salvi il mondo.

See you, Sun

Ci vediamo, Sole.
Credi che il pakistano sotto casa saluti perché tuo amico? O non sei altro per lui che centotrenta centesimi che camminano, ogni sera puntuali sul banco di granito chiaro.
Ha lo sguardo torvo e gli occhi infossati, ti guarda male ma in fondo ti vuole bene. Prova per te una recondita forma di affetto. Ci tiene tu non perda il lavoro, continui a svegliarti all’alba e recarti ligia in ufficio. Ci tiene ogni sera a rivederti.
La strada per l’alcolismo è lastricata di buone intenzioni mattutine, Sole.
Un euro e trenta sul bancone, è questo che sei.
Il primo sorso di birra, quel rumore inconfondibile, il glugluglu veloce.
Cercherò di non farmi accoltellare per te, stasera, Sole. Ti do il cambio, resta a casa. Cercherò di non scottarmi come quando toccavo te. Tu e il vizio di poggiare sempre le cose in bilico. Tu attratta dai bordi, dai baricentri, dagli equilibri instabili, dagli allineamenti imperfetti.
Ci vediamo più tardi, Sole.
Mi faccio passare il sonno mangiando, mi conosci bene, non lascio rimarginare le ferite per allungare i ricordi. Ho una sfida aperta con le piastrine. Viene dopo quella con le domeniche pomeriggio.

-Piacere, Sole.
-Sole? oggi non ci sei, la tua apparizione è una contraddizione in termini: piove.
Ho scoperchiato il tuo sorriso, è iniziata così.

Soddisfiamo una delle funzioni primarie dell’amore: avere qualcuno cui comunicare buone e cattive notizie. L’aria immobile, una impronta sul vetro che lentamente evapora, un trasloco di sabato mattina. Noi troppo assonnati per capire che stavamo scrivendo la storia.
Una sveglia orientativa alle undici, nessun appuntamento all’alba, nessun jet lag da smaltire.
Seguimi, Sole! Cade giù troppa pioggia, rischi di spegnerti. Il materasso è nuovo, concentra il peso sulla testa e prova a dormire. Ho sognato di rispondere al telefono dal manubrio della doccia, mi sono svegliato di soprassalto, i segni dei tuo baci addosso.
Ritornare a un certo modo di vedere le cose, stupirsi di una scoperta, emozionarsi in una città già vista. Tu credi, Sole, che se avessimo vissuto insieme, le cose sarebbero cambiate? Che te la saresti cavata con un solo scomparto frigo e la lavatrice da svuotare? Lo specchio di questa casa è spietato, lo sai bene. Come gli specchi delle case dove sei cresciuto: ti riconsegna la tua immagine autentica. Ti mostrano per come sei realmente, quegli specchi, con tutti i difetti. Non condonano rughe e incurvamenti, non risparmiano né perdonano.
Siamo umani, Sole.
È stato un errore farti indossare le mie magliette. Lasciarti dormire senza trasferire qui il tuo armadio. Far profumare di te qualcosa che era mio, associare ogni notte trascorsa insieme ad un colore. Impregnare le federe del tuo sapore.
Chissà quando ci incontreremo di nuovo, Sole.
Abbiamo recitato la nostra parte, come a ogni addio ci siamo ripromessi di non perderci di vista. Di sentirci, vederci a metà strada, incrociarci in centro. Mentivamo. La mia freddezza altro non era che realismo. Spergiuravi di non voler andare, un copione visto mille volte e una in più. Il problema è mio che resto. I tuoi capelli incastrati nella spazzola. Tu e un nuovo ecosistema da riscaldare.
Mi sono innamorato di te, Sole. Cosa c’è di nuovo? Dove sarebbe la novità. L’innovazione, la soluzione, la notizia. Chi ama ha sempre qualcosa da perdere e nuovi bisogni da soddisfare. La soluzione meno dolorosa è convincermi di aver immaginato tutto: i tuoi sorrisi e la nostra voglia di fermare il tempo.
Sto provando a dimenticarmi di te, Sole.
Ho trascorso da solo ogni notte da quando sei andata via.
Non farti più vedere, Sole. Qualsiasi cosa vale più di questo sentimento sciatto.
Ho preso a comportarmi così dalla sera alla mattina, in modo naturale. Devo difendermi.
Diventiamo pazienti nel volgere di un tramonto, passiamo dall’altra parte.
Ci ammaliamo perché siamo vivi, Sole.
Non mi è piaciuto il modo in cui hai preso il resto dal vassoio, è stato quello il segnale. Hai arraffato i soldi facendoli scivolare oltre il bordo, hai cercato di acchiapparli, di tirarli a te come se qualcuno fosse pronto a rubarteli. Con una mano mettevi in tasca le banconote, con l’altra davi la caccia alle monete. Le tue dita una pinza. Tanta cupidigia mi ha messo paura. L’importanza che riservi ai numeri impressi su quei biglietti bancari, la paura di perdere il valore nominale dei tuoi beni.
Ti ho giudicato dai particolari, non farmene una colpa.

Ho trattenuto il fumo lungo tutto il corridoio, mi aspettavi in veranda, portavo a spasso quel mezzo tiro di sigaretta, lasciavo l’aria della casa salubre e intonsa.
La tristezza è un diritto, la tua teoria della felicità imposta ci ha portato a questo.
Ho cercato di spiegarti un’ultima volta, i piedi poggiati sulla ringhiera, come la penso.
Come una latta di legumi o un pacco di farina dimenticato sul fondo della dispensa, mi tirerai fuori quando i supermercati saranno chiusi, una domenica pomeriggio d’estate o durante una tormenta.
Quel momento non è ora.
Non ci vedremo mai più, Sole.

Solleone

La strada tagliava in due le terrazze bruciate dal sole,
non ombrelloni, ma piastrelle incenerite.
Procedeva verso l’interno sorda,
come la campagna d’estate.

Parabole addormentate, balconi chiusi, finestre serrate.
In direzione opposta al traffico, contraria al buon senso, nemica della logica.
Deserto di relazioni, palude d’intenzioni e voglie, dove ciecamente mi dirigevo.

Vie che non sono la mia

Ci sono posti nei quali sono rimasto.

Mi trovate lì:
in una traversa a vicolo cieco lungo la strada provinciale
che da Bilbao porta a San Sebastian,
in quella piazza di Santander costruita dando le spalle al mare.

Vivo nei quartieri popolari,
dentro le fabbriche dismesse,
nei paesi nati intorno a un porto o una miniera.

Vie che ho attraversato una volta nella vita,
case sulle quali ho posato lo sguardo,
tapparelle serrate, ombre lunghe, gerani ai balconi.

Ci sono posti nei quali sono morto senza prendermi il disturbo di nascere,
godendo l’inferno della giovinezza senza sorbirmi il purgatorio dell’adolescenza,
passando a miglior vita senza soffrire.

Travessa da Senhora Aninhas a Guimarães,
il sobborgo portuale di Leith,
Passeig de Gràcia.

La mia anima ha mille indirizzi.
Ho seminato con cura pezzi di cuore lungo il continente,
in ogni istante del giorno e della notte si replicano:
liberi da me diventano cittadini del mondo.

Il gioco della guerra

Siamo due soldatini alla mercé di un bambino pestifero.
Io maresciallo dell’esercito asburgico,
tu ballerina di Ostrava.

Io nella mano destra, tu in quella sinistra.
Tu volteggi, io marcio.
Ci veniamo incontro fin quasi a toccarci.

Procediamo a scatti,
io sull’attenti, tu sulle punte,
nella stessa posizione in eterno.

Plastica contro plastica le nostre bocche,
non una reazione né calore,
dormiamo accanto senza poterci sfiorare.

Io immobile e tu cristallizzata, che gioco è mai questo?
Quale perfida diavoleria questa carneficina di passioni:
l’incantesimo che ci condanna a condividere l’esistenza,
ma non la vita.

Chanel n°555

Apparteniamo ad un’altra epoca,
ce ne dobbiamo fare una ragione.
Troppo poco attenti nel vestire, nel parlare, nel farci accettare.

Apparteniamo a un’altra specie,
una varietà ancora non classificata.
Non si spiegherebbero altrimenti i nostri momenti di assenza,
l’attenzione per i dettagli, l’indifferenza per gli oggetti del contendere.

Proveniamo da altre latitudini,
non parlo di galassie o pianeti,
di sicuro qualche meridiano più a est.
Dal fondo della grotta sottomarina del Belize.

Siamo membri di una società segreta composta da due persone.
L’unica giustificazione possibile al nostro essere ovunque fuori luogo.
Attoniti e disgustati come nulla ci scalfisse.

Dentro una specie di trance perenne che ci rende perennemente assorti,
distratti, odiosamente svagati, distaccati, vagamente apatici,
noncuranti, apparentemente insensibili, imperturbabili,
tremendamente giusti.

Generazione di fenomeni

Città scomparse,
ambienti culturali inariditi,
conversazioni perse nel tempo.

La Trieste di Saba,
la Parigi di Cèline,
la Vienna di Musil,
la repubblica popolare della nostra camera da letto.

Protagonisti inconsapevoli di una generazione baciata dagli dei,
questo siamo stati.
Miopi, ottusi, superficiali, stupidi.

Predestinati che hanno ignorato la chiamata alle arti,
scambiando oro per ottone,
argento per catrame,
complicità per abitudine.

Limitandoci a sopravvivere senza sapere di essere.
Noi gli interpreti, i personaggi principali, gli eroi.
Prime donne assurte al ruolo di comparse.

Eravamo noi l’avanguardia, l’élite di comando, i rompighiaccio,
il meglio che la nostra epoca avesse da offrire.
Altro non avremmo dovuto che diventare impermeabili,
sbarrare porte e finestre, non farci condizionare, legiferare.

Come fosse un atto politico,
il decreto costitutivo nel nostro regno:
amare.

La sindrome di Stendhal

Non ti vedo più,
so che questo inizia a essere un problema.

Sono improvvisamente scomparsi i vizi, le imperfezioni, i difetti,
l’asimmetria della bocca che notavo ogni qualvolta ti facevo ridere.
Le tre linee parallele sulla fronte.

Sei diventata un’immagine unica,
una visione mistica, un blocco di marmo.
La Gioconda attaccata sul Muro del Pianto.

Ti guardo e non vedo la curvatura del naso,
la cicatrice rotonda a due centimetri dal mento,
il labbro inferiore piazzato lì come fosse un broncio.

Non riesco a metterti a fuoco, mi si annebbia la vista,
è come se l’occhio si fosse ammaestrato al tuo volto,
come di fronte al quadro più famoso del mondo:
si dissolvono i particolari, rimane la meraviglia.

Notti in sogni

Sei un mucchio di neve sul bordo della strada ad aprile,
resisti al mio calore.

Un limone senza semi,
un frutto acido, ma perfetto.

Porti la corrente elettrica nelle case,
entri nelle stanze e spegni l’interruttore.
Fai luce tu.

Scendi dalla macchina cento metri prima di casa,
mi lasci partire, accendi una sigaretta e stringi le palpebre.
Ti vedo sempre più piccola nello specchietto.

Piccola che tornerei indietro a prenderti.
Indifesa che mi è sembrato di vederti piangere.
Fragile che vorrei difenderti da questo mondo infame.

Innamorato che ti porterei a casa ad abbracciarti per tutta la notte e sentirmi meno scemo.

Pianti e morsi

Nostalgia di epoche mai vissute,
è quello che provo quando vedo te.

Sorridi senza guardare l’obiettivo, i gomiti raccolti dentro i palmi,
io e te a Praga nel ’56.

Mi ricordi l’Alhambra in un pomeriggio di pioggia,
Gibilterra nell’intervallo tra le due guerre.

Facciamo parte della resistenza,
noi due depositari del buonsenso,
difendiamo dai barbari virtù e conoscenza.
Conserviamo l’avvenire chiusi in un rifugio.

Ti guardo negli occhi in questo sottoscala umido,
ci vedo quello che verrà:
lo sbarco sulla Luna, la tv a colori, la guerra atomica,
le lotte per la casa, il salario minimo garantito, lo scontro di civiltà.

Tu e io ogni notte a combattere spazio e tempo oltre i bastioni della fine del mondo.

Lov out

Mi sono addormentato sulla tua bacheca stanotte,
la copertina sui piedi e le foto in cui sei taggata sul soffitto.
La musica che ascolti, i film che hai visto, i posti che abbiamo visitato insieme.

Ho preso sonno nello spazio dei commenti sotto al tuo ultimo post.
Ho sognato la tua città natale,
il posto in cui vivi che è anche il mio.

I tuoi seguaci mi perseguitavano,
gli amici in comune ci osservavano,
mi bloccavi e inserivi in black list.

Aforismi, videoclip, pagine sponsorizzate.
Film, gruppi, note, recensioni.
Mi sono svegliato di soprassalto,
la tua foto profilo accanto.

Il display del cellulare illuminato,
una notifica che segnava il tuo passaggio.
“Hai fatto tardi stasera, dove sei finita?”
Sei tornata in linea tardi.

Ti chiedo solo un’accortezza:
la prossima volta digita piano i tasti mentre fai l’accesso.

*123#

Il tuo sorriso spacca i muri,
spezza gli alberi,
fa germogliare i fiori.

La tua risata è un golpe,
un atto politico,
la firma sulla Magna Carta.

Uccide i cattivi il tuo sorriso,
spezza le reni, spalanca le gabbie,
fa abbandonare la nave.

Mi sento ridicolo:
tutte queste storie per una risata.
Il fatto è che quando ridi diventi come immortale.
Sono convinto che se ridi sempre noi non moriremo mai.

Sogno del destino

L’amore scappa via dagli occhi
Per una vita mi ami
Il secondo dopo non esisto più

Ci sei tu
Mi guardi
C‘è l’amore che ti stringe le pupille sul naso
Il mio avambraccio un trespolo dove ogni sera ti appollai

Ridi mentre guido
La mano sul cambio e tu lì poggiata
Come un’eschimese strofini il naso sulla mia guancia
Prima seconda terza e siamo a casa

Gli occhi, i tuoi occhi, finché mi ami tienili aperti quegli occhi
Amami e sogna che durerà per sempre
Scapperà dagli occhi l’amore un giorno appena sveglia
E dopo che andrà non guardarmi più

Solstizio d’inferno

Ha fatto meno freddo quest’inverno dello scorso.
Il maltempo non si è scomodato,
l’ombrello è rimasto asciutto.

Arriva primavera e non ho ancora rifatto il letto,
il termosifone spento, il latte tiepido, la legna nel granaio.
Rugiada che non s’è mai fatta ghiaccio.

È un inferno questa stagione,
la colpa è nostra,
che abbiamo smesso di sfidare il tempo.

Lo sanno anche i muri
che chi ha inventato il freddo
voleva farci dormire più vicini la notte,
distanti non esistiamo.

Io e te fermi e caldi
illuminati da macchine che non infiammano,
non esattamente vivi.

Di che sogno sei?

Mi piaci perché ti stanchi presto,
nella toppa della porta sbagli verso girando la chiave.

Vieni da un altro pianeta,
rotei in un senso opposto al nostro,
distratta di giorno illumini la notte.

Niente ti tange o ti scalfisce,
imperscrutabile e fiera.
Il tuo corpo emana calore,
come un’aura che ti avvolge e mai s’acquieta.

Dormi senza cuscino,
cammini senza poggiare i piedi a terra,
osservi come ridestata da un sonno secolare.

Fede, economia, politica, astrologia,
nulla ti attraversa.
Ho una sola domanda da farti:
finora, dove diavolo sei stata?

Opinioni

Secondo me io e te dovremmo fare l’amore fortissimo, distruggere due tre letti, tirar giù le serrande e imbottire i muri, con un terremoto inclinare di 4 centimetri l’asse terrestre, risalire i fiumi come fanno i salmoni, dissalare i mari, eclissare almeno una dozzina di soli, strapparci i vestiti e correre nudi, distruggerci fisicamente, sterminarci e poi ricominciare; ma riconosco di essere di parte – forse un po’ troppo preso, non obiettivo – nella questione.

Metro di lettura

L’immagine di te che leggi mi manda letteralmente ai pazzi.
Gli occhi fissi sulla pagina, risucchiati dal cristallino al centro della testa.
Il silenzio, la concentrazione, l’attenzione massima, scariche elettriche.

Guardassi me come quel foglio luminoso,
ascoltassi me.
Sapessi chi sono.

Allora, nell’incapacità di suonare alla tua porta ti arriverò per posta.
Mi farò carta, byte, codice ascii, interfaccia grafica.
Leggerai un foglio che è uno specchio: sei tu.

Scrivendo a nessuno, mi rivolgerò a te soltanto.
Che non mi conosci e non reinterpreti
E per questo meriti.

Il male d’inverno

L’ho visto invecchiato il venditore di rum,
più derelitto dei distillati che vende.

In fila alla cassa con in mano alcolici
che dilateranno i nostri vasi sanguigni
nella notte più fredda dell’anno.

Io, tu, la neve preannunciata, la coperta corta,
i piedi gelati, la scoperta dell’America,
il calore disperso, non sentiamo più freddo.

Un aereo cargo avanza su una pista innevata ai confini del mondo:
c’è un motore rovente dentro di me:
sbeffeggia il buio, il ghiaccio, il tempo, il buonsenso.

Maleducati e stupidi

Ti penso pensò convinto di non essere ascoltato.
Ti penso anch’io ribatté sicura di averlo sentito.

Si vennero in mente insieme, ma non se lo dissero per orgoglio, opportunità e buonsenso.
Respingendo indietro l’umanità di un millennio.
Non lasciando nessuna traccia del primo caso di telepatia del mondo.

Acqua di Te

Hai un odore che è propriamente tuo.
Non si fa inquinare da altro.

L’ho riconosciuto mentre passavi nel quartiere accanto,
in mezzo ai fumi di un concerto elettronico.
Tra i banchi del pesce e negli ingorghi che ogni giorno tormentano gli abitanti di questa città.

Rimane il tuo odore, non evapora né si mescola.
Riempie gli ambienti senza disperdersi nell’atmosfera.

Passeranno gli uomini, le stagioni, le ferite, i tram per la stazione, la polvere e il sapone.
La tua essenza non diventerà un profumo.

Niente che potrà essere mai replicato, ricostruito in laboratorio, vendibile singolarmente.

Interrogatorio

E dimmi un po’:
La tua bocca non ha mai avuto pentimenti?
Dimmi la verità.

I tuoi occhi non mi hanno mai pensato?
Le orecchie non hanno visto?
Il naso non ha ascoltato?
Le mani sono rimaste mute?

Non ti è capitato mai di confondere i sensi di marcia?
Entrare dalla finestra, sporgerti dal frigorifero, cucinare sulle scale.
Nessuna infrazione, nessuna sosta vietata, nessun doppio senso?

Sei andata per la tua strada integerrima e sicura,
uscita dalla mia vita nascondendo nella coscienza un reato,
stonando l’ultimo verso della nostra canzone.

Il giudice ti ha condannato infine,
mi è arrivata oggi la notizia della tua condanna:
Dichiarata colpevole di falsa testimonianza.

Il modo in cui aspiri la sigaretta
– pollice indice e medio intorno al filtro come un boccaglio da cui prendi l’ossigeno vitale durante un’immersione dentro un vascello abbandonato –
i tuoi denti bianchi
i capelli fitti
l’attaccatura bassa
la risata nervosa

Bruci di un’inadeguatezza che appartiene ad un altro periodo storico
Inquieta come chi ha sbagliato epoca
Incompresa come chi è tre decenni indietro o un secolo avanti

Ansiosa, a scatti, fumi e ti consumi
Di un’insicurezza propria del genio
Severa giudice di te stessa
Altera eppure fragile
Sempre in discussione
Non all’altezza
Perfetta

Consider this

Quello che mi manca non sono le persone,
quanto un certo modo di vedere le cose.

Le mie prime volte, le paure superate, un cielo nuvoloso, la fase di decollo,
il rapporto col sonno, fare colazione al bar, uscire in tuta la domenica mattina.
Quello che pensavo mentre lo facevo.

Mi mancano le sensazioni, non le mani, un letto caldo, il sedile di un treno.
Come giudicavo la vita prima.

Se esistesse una droga che mi facesse tornare a quel sentire non indugerei:
ogni pomeriggio un overdose percettiva,
un’indigestione di sentimenti.

Baci Perugina

Ogni volta che apro la porta sogno di vederti saltarmi addosso oppure tendermi un’imboscata sotto casa fare l’amore senza dire una parola addormentarci subito dopo svegliandomi prima della sveglia per guardarti dormire in un sonno dove sogni che ad aprire quella porta sia io e nessun altro.

Nascimento

Esistono notti infinite che però finiscono,
progetti di vita con persone conosciute da un’ora,
immortalità latenti.

Universi illimitati rinchiusi dentro quattro mura.

C’è il buio, il duro e il morbido,
le pupille che si espandono,
il tempo che stringe e il cuore che batte.

Ci sono universi che orbitano e montoni che transumano,
pesci che nottetempo vengono a deporre le uova sotto al nostro letto.

C’eravamo io e te,
un sole che abbiamo minacciato perché non si facesse vedere ma che poi è arrivato.
Un’epoca storica trascorsa in una notte,

trentacinque plotoni di fanteria disintegratisi sul mio balcone.

Insieme abbiamo scoperto il ferro, il fuoco, il caldo, l’amore, l’odio, il sesso.
Mummificandoci abbiamo resistito al tempo.
Deliberatamente dividendo sacro e profano, giusto e sbagliato, attimo ed eterno, abbiamo dominato.

Un colpo di stato improvviso,
una piazza illuminata a giorno,
una folla che urlava il tuo nome.

Nessun morto di fame né d’ingiustizia nella nostra repubblica durata un giorno.

Richiesta #27

Che venga presto il freddo
Così tu possa indossare il mio cappotto
Che ti ricordi le serate trascorse
I brividi di freddo – i tuoi versi
Prima di entrare a letto

Che venga la tormenta e ti riporti indietro la mente
Riduca la visibilità alle tue certezze
Ti rimanga soltanto una diapositiva davanti:
Il Palazzo d’Inverno
la Sagrada Família
l’autunno caldo
gli scontri tra tifosi
la filmografia di Norton
la città blindata
il conflitto a fuoco perenne
tra i miei rimpianti e i tuoi rimorsi

Io e te insieme assassini e vittime.

Il peggio è bastato

Il fondo delle piscine dei villaggi vacanze sulla Jonica a Natale.
Ti ho lasciata scivolare sul letto,
non ho provato a riafferrarti: era d’estate.

Riemergendo dalle tue cosce ho ripreso a respirare,
ginocchia, fianchi, scapole, naso, aria.
Il costato scala dove impuntare i piedi per risalire.

Stronzo il cervello a cui bastano sei secondi senza ossigeno per spegnersi.
Fisico che non rende giustizia alle infinite possibilità della mente.
Immaginazione che si fa cranio,
sensazioni reazioni chimiche,
l’anima una milza spappolata.

L’amore non è semplice prosecuzione della specie,
ma è alle leggi della fisica che da oggi dobbiamo sottostare.
Cuore organo muscolare cavo e non sentimento audace.
Io guadagnare la riva e tu nella nebbia dei ricordi affogare.

Che troppe notti ho trascorso all’addiaccio aspettando una scialuppa per due,
quel petto di pietra che adesso cola a picco.
Un urlo dalla riva, una mano che si allunga, una voce che sussurra:
È tutto finito, sei salvo, monta a bordo che il peggio è bastato.

Burrocrazia

Muore il ceto impiegatizio che fu.
Crepa la borghesia degli abusi di potere e delle lentezze procedurali.
Divisi, muoiono burocrati che un tempo tiranneggiavano cittadini attoniti.
Lontani, al quarto piano delle prime periferie oggi diventate a tutti gli effetti quasi centro città.
Andati i giorni delle ferie pagate, dei permessi e delle firme retrodatate.

Muoiono i soldati, non più in marcia né in trincea.
Reparti di fanteria staccati, trapassano ognuno per conto proprio.
Niente bombe né imboscate né saluti.
Abusi di potere sfioriti, divise che non mettono più in soggezione, andature ingobbite.
Misere schegge di una granata deflagrata per sbaglio dentro uno zaino.

Muoiono maestri e professori universitari.
Nessun suono di campanella al funerale, non un programma da concludere o lasciare a metà.
Quegli anni di piombo a spiegare i quali non si arriva mai.
Lezioni arrangiate, compiti in classe da correggere, schede di valutazione compilate alla rinfusa.
Ricordi che cadono a pezzi come il sottotetto dei laboratori di chimica negli istituti industriali di paese.

Silenziosamente si estingue un’intera stirpe di burocrati,
finiscono insieme – a due a tre alla volta – senza sapere uno dell’altro.
Sfioriscono vite nell’infinito circolo del ricambio generazionale del diritto pubblico.
Di chi ora è al centro dell’impero,
ma che gli anni, gli acciacchi e il collocamento a riposo renderanno provincia remota.

Unità di misura

Ora il tempo inteso come qualità,
ora come quantità.
Ore vendute a peso d’oro,
secoli sintetizzati dentro compendi di storia in offerta alle bancarelle del mercato.

Servono giorni per dimenticarti,
tramonti accatastati sulla scrivania come cartelle esattoriali,
montagne di mercoledì pomeriggi inevasi.

Servono scaffali di lenzuola rosse e blu con gli angoli elasticizzati,
dodici cisterne di pasta scotta,
un secolo di centrifughe a freddo.

Mi servono anni secoli per dimenticarmi di te.
Settimane attimi, giorni notti, badilate di chilometri.
Libri lasciati a metà, scatole di scarpe, cerotti rotti e lampadine fulminate.

Servono mesi da buttare e pomeriggi al sole.
Uno dopo l’altro devono trascorrere, consumarsi, passare.
Birre da vuotare, sigarette da mangiare, bambini a cui sorridere.
Uomini, donne, anziani da lasciar attraversare, sguardi da incrociare,
occhi dopo occhi dentro occhi nei quali provare a trovare occhi che somiglino un po’ ai tuoi.

2 settembre

Il locale dove ci siamo baciati la prima volta è chiuso sbarrato.
Ci sono passato davanti ieri sera.

Le canzoni che ballavamo all’epoca le vendono in compilation,
con 4 euro porti via il cofanetto,
quelle di adesso non so a chi dedicarle.

I tuoi denti bianchi, il monolocale soppalcato, i tuffi,
la testa a mezzo metro dal fondale, viaggiare senza navigatore.

Il sole tramonta in fretta a fine estate,
la Sicilia fa il resto,
le notti durano di più,
tredici ore o quattro anni fa poca differenza.
Da quanto manchi tu.

Non abbiamo fatto in tempo a soffrire il freddo,
eppure ti è bastata una stagione per farti rimpiangere.
Partita di settembre per mai più ritornare.

Un bacio, un sorriso, un trucco, sei sparita dentro una nuvola di fumo.
Come una prestigiatrice riapparsa dall’altra parte del mondo
– sulla sponda opposta del Mediterraneo –
senza muovere un passo.

Del tuo passaggio resta il tuo profumo,
una telenovela latina che ci faceva da sottofondo
e una scia color arancio che sta rendendo ancora più corto questo giorno.

Alcune ragazze hanno occhi più bianchi di altre

La penultima notte che abbiamo dormito insieme
c’era una pazza che gridava sul balcone di fronte
e ho capito adesso cosa blaterava: Non lasciarlo o ritorno sana!

Ci ha svegliato con le sue urla,
in tre anni non aveva fiatato,
da quel giorno non si è replicata.
Avrà avvertito qualcosa nell’aria.

Ho mascherato la nostalgia con la tua assenza al rientro,
manchi tu e non l’estate.
Il tuo corpo e non il mare.
Confondo progetti e ricordi, le tue parole e le mie.
Tengo al caldo quello che resta di noi.

Ma dimmi adesso, cosa stiamo aspettando?
Che il mosto si faccia vino,
questi versi carne o che sia il tempo a cambiarci?

Scendere a patti con il mondo.
Non avere più nulla da dirci?
Diventare come gli altri.
Non farci scudo.
Dimenticarci.

In quelle notti – 30 gradi alle due di notte – il dolore di denti stringeva accordi con l’insonnia e svegliandomi senza essermi mai addormentato andavo in cucina a farmi di ibuprofene e amoxicillina. Aprivo gli occhi alla mattina come se quella pausa chimica non fosse esistita, confondendo l’ansia da risveglio con il mal d’amore. Pensieri ossessivi e sogni si mescolavano, diluendosi. Ad oggi non mi è ancora chiaro se quell’antidolorifico abbia zittito la carie, l’insonnia o il cuore.

Gariga

Di autoclavi abbandonate sulle terrazze,
tangenziali a doppio senso di marcia:
un birillo manca, l’altro pure.

Reti da letto diventate recinzioni,
case ammassate, muri tirati su con sapiente incuria,
strade che si adattano a marciapiedi privati.

Cinguettii; pantaloncini e magliette non abbinate.
Bambini di 15 anni con i polpacci abbronzati,
fermi al rosso, avanzando un centimetro alla volta.
Il casco legato sotto al mento.

Aree arrivi colme di sorrisi, ogni imbarco un rimpianto.
Dopopranzo, pareti scalcinate, umidità che non si asciugano al sole,
pali della luce storti, tutti diversi.

Barche, odore di vernice, vicoli dai quali si esce in retromarcia,
impalcature mangiate dalla ruggine,
piatti di frutta fresca, dolce e odorosa.

Cortili nascosti, spazzolini da denti utilizzati 15 giorni l’anno,
gatti sgonfiati, saponi di Marsiglia, la costa Jonica,
Palizzi, Pola, i dintorni di Alicante,
la remota periferia di Atene, Reggio Calabria.

Ogni agosto – identico e originale – il centro del mondo.

Ciao

Ho finito il detersivo che avevo comprato al supermercato insieme a te.
I biscotti con le gocce di cioccolato,
regalo del tuo ultimo viaggio,
sono finiti anche quelli.

Terminato il pieno di benzina,
scivolato in fondo alla lista delle chiamate il tuo numero.
Ti ho aspettata due giorni, poi ho buttato via spazzolino e infradito.

Il libro che mi hai regalato, ho strappato la pagina con la dedica.
I jeans infangati dall’ultima scampagnata li ho lavati a 90 gradi ieri.
La stessa fine hanno fatto le lenzuola, la federa che sapeva di te.

Sulle mie magliette non c’è più il tuo odore,
mappe e carte d’imbarco sono finite nel bidone della differenziata.
Torneranno fogli bianchi e biglietti del treno.

Con il tuo olio per i massaggi ho lubrificato la porta.
Cigolava da un po’.

Ho bevuto i fondi dei tuoi succhi di frutta,
mela verde, albicocca, ace.
Le pesche marcite non hanno opposto resistenza.

Ho tolto i tuoi capelli dalla spazzola,
dato fondo al tuo barattolo di caffè,
poi mi sono seduto calmo e ti ho aspettata ancora.

La lista della spesa sul tavolo,
io e te al supermercato,
il macellaio sotto casa.

I soldi in mano,
pronto a ricomprare tutto.
Esco a bermeli stasera.

Addio.
Mi dispiace per te.
Ciao.

Non lo so

Fumo quaranta sigarette al minuto da quando mi hai lasciato.
In due settimane il mio cuore ha perso trenta chili.
La mia anima si droga.

No dico: fai serio?

I centimetri da occhio a occhio,
in che posizione dorme la tua lingua,
la pendenza del tuo bacino.

Devo ancora calcolare tante cose.
Mi hai lasciato col lavoro a metà.
Gli operai stavano giusto montando le impalcature.

Con un panino in mano e una birra di lato ora mi sono seduto sul marciapiede ad aspettare.
È solo una pausa nei lavori – il caldo estivo
O mi tocca davvero sbaraccare?

Il colore dei tuoi occhi quando sono chiusi,
i movimenti involontari nel sonno,
le contrazioni delle dita dei piedi e i cambi di lato.

Eravamo al primo giro quando hai azionato il freno di emergenza e sei scesa.
Non mi hai dato nemmeno il tempo di guardarti tutta.
Come se dopo l’antipasto avessi detto: sto apposto così.

I capelli dietro le orecchie,
l’angolazione delle ginocchia mentre mangi,
i pugni stretti mentre baci.

Le tue dita un rastrello,
foglie morte i ricordi,
un campo fertile e incolto dove ho piantato un seme:
quel dubbio che adesso ti attanaglia germoglierà.

Sarò – ancora – lì a vederlo fiorire?

Supereroi

La nostra relazione aumenta d’intensità col calare del sole.
Questione di rumori e di autostima.
Mi sento più bello al buio, quando il brusio della città s’abbassa e mi si vede poco.

La nostra relazione diventa più resistente con la pioggia torrenziale.
I tuoni ci fanno stringere, le strade diventano impraticabili.
La casa è il nostro feudo, traffico e persone per un giorno non ci assillano.

Si riscalda col freddo il nostro rapporto.
Acqua sui davanzali, grandine che sbatte sui vetri, marciapiedi allagati.
È d’inverno che ci avviciniamo a quello che realmente siamo.

Con la luce fioca, di pomeriggio tardi, da soli; seduti sul letto con le spalle al muro stiamo meglio.
Sotto un tetto; caffè e biscotti a portata di mano.
Un libro aperto, un computer sulle ginocchia;
oblò da dove guardare senza essere osservati.

Ho come l’impressione che abbiamo bisogno del buio, del silenzio, del freddo per stare bene.
Di parlare il meno possibile.
Di condividere aria, spazio e tempo come fossimo soli.

È questo il segreto del nostro rapporto,
il superpotere più egoista del mondo:
nessuno dei due ha la pretesa di salvare l’altro.

Solstizio d’estate

L’estate entra senza chiedere il permesso,
lo dici sempre tu,
non immagina nemmeno l’esistenza dell’inverno.

Quante cicatrici sulla pelle,
una per ogni scottatura,
ombre di stagioni passate.

Come un’estate che non conosce ragioni,
mi hai dato ordine di bruciare la campagna tutt’intorno.
Di essere il fuoco che si fa beffe della rugiada.

Si è dimenticata qualcosa qui, la primavera.
Un cestino di pesche gialle.
Bruceremo anche quelle.

Ho dimenticato qualcosa anch’io.
La fine della scuola.
L’ultima campanella che suona.

Mi sono innamorato di un vestito a fiori,
boccioli che tra qualche mese saranno petali gelati.
Li ho protetti, nascondendoli alla tua vista.

Non tutto è perduto,
per conto mio qualcosa ho salvato.
Quei sentimenti che ho nascosto.

L’essere umano che ancora alberga in me.
Che non si è arreso alla tua dittatura.
Quel cuore che hai abbandonato alla mercé di un’altra.

L’amore che hai dimenticato in questa sera di giugno,
intenta com’eri a radere al suolo il mondo.

Duemilatre

Nuovi te e nuovi me nasceranno e cresceranno.
Popolano già le strade di questa città.

Ventenni insolenti, sguardi traversi, sorrisi maliziosi.
Compiranno gli stessi errori, ameranno forte, nessuno potrà fermarli.

Nuovi noi animano le aule dei licei,
presentano giustificazioni improbabili,
attaccano le gomme sotto ai banchi presuntuosi.

Altri noi che pensavamo di aver definitivamente domato e sconfitto,
ci compaiono davanti come infiniti replicanti.
Altre te tornano a casa con la corte, altri me le stanno inseguendo.

Li lasciamo attraversare sulle strisce davanti scuola,
noi due un po’ inariditi, ma ancora forti.
Ci separa un vetro, quindici anni, una ruga.

Ci ritroviamo ora di fronte, chi siamo e quello che siamo stati,
generazioni a confronto.
Ci sfidiamo con occhi sprezzanti,
ingannandoci una volta in più di aver capito tutto del mondo.

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#10mg

Quindi vieni, adesso, non aspettare: il clima è perfetto.
Terremo finestre aperte e tapparelle abbassate.
Riconoscerai il profumo, lo sto conservando sottovuoto.

Prendi il 60, stacca la mente, suona alla porta, poggia la borsa sul divano.
Fai come la prima volta.
Amare meno non è mai la risposta.

E tu che ricordi: a che punto erano i nostri sogni?

Tu che ricordi tutto quanto: Repubblica o Monarchia?
Cosa volevi diventare, regina illuminata o democrazia?
Costruivamo insieme una piazza o un castello?

Non pensarci adesso, non farci caso, non rispondermi,
ma vieni, l’amore c’è ancora, non è finita.
Il tempo è fermo anche lui, e ci aspetta.
Dimmi soltanto una cosa, quanto ti fermi:
preparo la cena o riordino la mia vita?

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Denuncia di inizio attività

Pensavo fosse tutto più semplice,
volevo solo costruire una casa sulla tua schiena,
il viale d’ingresso nell’incavo della spina dorsale.

Un balcone con la clavicola a far da cornicione,
affacciarmi ogni mattina sul tuo seno.
Non credevo ci fosse bisogno di tante autorizzazioni.

Una villa al mare sul tuo fianco destro,
una palafitta o un bungalow senza fondamenta,
spiaggia privata il tuo costato.
L’ombelico pozzo dei desideri.

Vorrei costruire due torrette sui tuoi occhi,
uno scivolo che dal naso porti direttamente dentro la bocca,
i miei gatti riposano già sulle tue guance.

Un ponte di legno tra le ginocchia,
un piccolo attico sopra il tuo mento,
una scala a chiocciola da orecchio a orecchio.

È tutto pronto, le impalcature montate,
lavorerò di notte e dormirò di giorno,
ho già deciso,
tra i tuoi capelli troverò frescura e riparo.

Aggirerò i permessi, è questione solo nostra,
lasciami fare e vivrò su te.
Stanotte stesso inizierò i lavori.

Rinfrescherò le pareti e abbatterò i muri,
colorerò la facciata e rimodernerò gli infissi,
stenderò la tua pelle, ti soppalcherò cuore.

Nella parte piana del mio gomito pianterò un albero.
Gli darò il tuo nome.

o

Soggetti inconsapevoli di foto turistiche occasionali

Ho festeggiato i miei 31 anni comprando un biglietto aereo, abbandonando una donna e lasciando il lavoro. Solo due cose delle tre sono vere, l’altra accadrà a breve.

«Credo di doverti delle spiegazioni. Che tu non ne esiga è ancor più grave della mia mancanza.»
Ho dei libri da terminare, mi sono imposto di leggere dopo aver finito di scrivere un certo numero di storie che ho in testa. Robert Walser, Kurt Vonnegut, Lautréamont, DeLillo. Sono sceso in strada, ho stampato la carta d’imbarco in cartoleria e sono risalito di corsa a casa. La data sul biglietto del treno regionale che mi porterà all’aeroporto è stata illuminante: 25 gennaio 2013.
Sono grande.

Da giovane, quando fotografavo, ogni cosa diventava mia. Anche le persone che immortalavo per caso. Gente che da lì passava e, bontà loro, mai è venuta a reclamare i diritti d’immagine.
Fotografavo ch’ogni cosa era mia, le facce degli sconosciuti comprese.
Le foto mi piacciono perché non possono parlare. Se ne stanno ferme a farsi osservare. Mute, immobili, fisse, cristallizzate, uguali per sempre. Ti parlano senza lasciarti replicare. Mica come te: mi dai fin troppa confidenza.
Quel lungo attimo in cui non riconosci un’immagine: è quello il momento migliore, la fase poetica. Il disorientamento dove tutto può essere, ogni visione possibile. Lo sgomento di fronte all’indefinito. Come nei quadri avanguardisti di mezzo secolo fa, cercare di interpretare. Un volto, un naso, un albero, un profilo, la coda di un pesce. Andare oltre per capire, scavando dentro sé. Prima che la realtà affiori, distruggendo per sempre ogni forma d’immaginazione.
Dimenticare la faccia tua, abituato come sono, ogni giorno, a ritrovarmela davanti.

Ognuno ha delle vecchie foto cui dar conto.
Quelle di noi due sono partecipate al 50%, né io né tu ne possiamo disporre a piacimento.
Le parole, invece, sono di tutti e ho intenzione di tirartene addosso una secchiata: non ti amo perché non ho più voglia di fotografarti, non ti amo perché non mi piace come sali le scale, non ti amo perché usi parole chiave, non ti amo perché nella descrizioni parti dalle esperienze professionali, non ti amo perché ti si vede sul collo il segno del fondotinta. C’è come un solco al di sotto del tuo mento, non credo si tratti di una maschera, ma non ho intenzione per fidarmi.
C’è un tempo per tutto e c’è un tempo per niente: che non ti amo, no.

Ho abbandonato una donna stasera, i soggetti ignari che scorrono nelle diapositive non ne sanno nulla. Non conoscono niente di me e di lei, di quello che eravamo e che non siamo più. Ho fatto un biglietto stasera, sono grande. Lascerò un lavoro domani, non ne sono mai stato così sicuro. Sono lucido come rare volte mi è capitato, di sicuro non come quando ho deciso di provare ad amare te.
Sono giochi di semi-incoscienza il calcio e il sesso, si rimane concentrati su un oggetto, il contorno sfuma. Sono piene di individui inconsapevoli le foto dei nostri viaggi, dove sono tutte queste persone ora? Mi serve fargli una domanda: eravamo noi felici ai loro occhi? È al loro giudizio severo e inappellabile che mi rimetto. Loro, giuria popolare e noi due, imputati. Chiamo a testimoniare il signore con la camicia verde, la signora che in fondo alla scalinata guarda il Partenone, il ragazzo col capello di traverso. Chiedo venga messa a verbale anche la deposizione del cane.
La logica delle compagnie aeree, in fondo, è questa: recuperati i costi del servizio, aumentano esponenzialmente il costo del biglietto, quello che arriva da quel momento in poi è grasso che cola, puro guadagno. Come faccio io a nutrire fiducia nell’umanità?
Come il muschio che scompare il giorno dopo che l’acqua si secca: il tuo pensiero evapora nell’intervallo che un bacio s’asciuga. Sono una persona problematica, ma ora convoco tutti, devono dirmi uno ad uno cosa ne pensavano di me e te. Se il tuo sorriso era sincero e il mio sguardo fiero. Devono parlare senza abbassare gli occhi, devono provare a ricostruire. Ho i loro identikit con me, inesorabilmente risalirò ad ognuno. Avranno tutti una parte in questa storia.
La realtà è che ci siamo scattati troppe foto, sei stata sovraesposta e adesso non ho più voglia di vederti. Ho nostalgia dei nostri primi scatti, quelli rubati, quelli ammantati, ché è meglio non farsi notare. Figure distese su un divano, busti senza testa e capelli sulle spalle. Istantanee di cui non potevamo fare a meno. Senza alcun bisogno di comunicarlo al mondo. Poi un giorno ci siamo messi a fuoco, abbiamo affidato alla stabilità di un treppiedi la nostra immagine definita. Imperfetto il tremore delle nostre braccia. Svestendo i panni degli amatori, siamo diventati professionisti. Ma l’amore, quello, forse, non c’è mai stato. E se sì, lo rinnego. Per una generazione di fotografi, ne avremo una di nostalgici. Tutte le istantanee, i primi piani freschi, tra vent’anni ci colpiranno come un pugno al centro del viso. Ci ricorderanno come eravamo allora, cosa saremo diventati ora.

Le tue boccate di fumo davanti all’obiettivo, i capelli neri, il mercato del pesce, meri elementi del paesaggio. È dei soggetti inconsapevoli che d’oggi in poi m’interessa, che restino tali, perfetti nella loro ignoranza. Dalle cartoline ricordo, agli atlanti illustrati, fino alle guide turistiche, mai elementi principali. In ogni foto che trasmetta vita, imprescindibili. Diventerò un documentarista, ecco cosa farò. Nessun essere umano sarà il soggetto principale delle mie raccolte, solo individui che da lì per caso passeranno. Rappresenterò il mondo per come è fatto, senza aggiungervi altro. Mirerò all’essenza, raffigurando l’esistente. Un albero, una chiesa, una piazza, una processione, miriadi di insignificanti, ma necessarie, comparse. Che non amo te, te l’ho detto già. Toglierò dalla nostra raccolta il tuo viso, ci sarà un buco circolare su ogni stampa. Come una serie di francobolli annullati: abbiamo viaggiato, siamo stati utilizzati, siamo ormai da collezione. Pronti per essere immersi in una bacinella d’acqua calda e staccati dalla busta che ci contiene. Pronti per essere messi sotto vetro e catalogati. Sotto la voce ‘annulli filatelici’ infine finiremo. Con una didascalia che altro non è che un necrologio, l’annuncio funebre, una frase fatta prima del sipario finale. Ne danno il triste annunzio l’immaginazione e la libera interpretazione. Noi due, vittime del nostro stesso lavoro. Due righe sintetizzeranno, senza persuadere, il nostro vissuto. Nati, cresciuti, incontrati, morti, ancora viventi. Abbiamo perso nell’esatto istante in cui abbiamo deciso di passare dall’altra parte dell’obiettivo, cedendo alla condivisione e alla vanità. Da controllori a controllati nel breve volgere di un click. Partiti per documentare il mondo, ritornati con una catasta di primi piani e migliaia di sfondi funzionali ai nostri abbracci. Che non ti odio per questo, ma non ti amo neanche più. E forse mai prima d’ora. Che preferisco le cose che non si devono agitare prima dell’uso, come la birra che sto mandando giù. Mentre tu, lontana finalmente da me, sei ritornata forse ad azionare compiutamente l’otturatore, rimettendoti in secondo piano. Ché la solitudine ci riporta alla penombra delle camere oscure. Ci siamo fatti tentare, lasciando che i soggetti inconsapevoli diventassimo noi. Facendoci da fotoreporter, attori. Ma né io né te siamo roba da fotoromanzi, quello che tenteranno di fare schedandoci non gli riuscirà. Ogni pellicola porta dentro una storia che difficilmente dalla carta patinata trasuderà, non ci avranno mai. Ti difendo dagli altri ma non da me, nessuno potrà maledirti se non io. Che continuerò a non amarti seppur facendoti da scudo. Degli estranei decideranno per noi, daremo loro l’importanza che non meritano e che essi stessi non chiedono. Li investiremo di una responsabilità enorme, ma spassionata. A loro, del nostro cuore, in fondo, non interessa. Tutte le persone che, appellandoci al diritto di cronaca, abbiamo subdolamente raggirato, adesso decreteranno su noi. Coloro che erano semplici porzioni di umanità di passaggio, puro elemento coreografico, si faranno giudici e despoti. Ci siamo condannati, dando un fucile in mano alle nostre vittime. Abbiamo definitivamente perso ogni privilegio, ogni posizione dominante. Solo due cose, oggi, mi restano: una carta d’imbarco e un biglietto chilometrico.
Non l’amore, men che meno tu.

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Risvegli sentimentali

Sei più bella quando mi baci,
niente di personale,
pura questione di lineamenti.

Sono i muscoli facciali che si attivano,
rughe d’espressione che scompaiono.
Parte tutto da un bacio, ma il merito è tuo.

Sei più bella quando mi abbracci,
la quota di esercizio fisico consigliato,
i due minuti al giorno di trazioni e allungamenti.

Lo consigliano i medici, mica soltanto io:
avvolgi le braccia intorno a me e stringi.
Mantieni la presa trenta secondi e rilascia,
poi afferrami ancora.

Ogni mattina è una palestra da quando ti dormo accanto,
questione fisica prima che romantica,
esercizi che fanno bene alla pelle e al cuore.

Potassio, fibre e fosforo.
Zero conservanti e coloranti aggiunti.

Salti, capriole, addominali tavole da surf, polpacci trampolini, percorsi della salute, gomiti da tennista, pollici che si riscoprono opponibili.
Un risveglio di sentimenti,
che è un’offesa limitarsi a chiamarlo amore.

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E qui in ozio di primavera

La primavera è un pugno in faccia, ti colpisce e ti butta a terra.
Troppa aria, bassa pressione e sole.
Ti ricorda quello che potresti fare e da una vita rimandi.
Le infinite possibilità del mondo.

Sono finiti il vento freddo, la pioggia e le giustificazioni: non ti resta altro che uscire.
Buttarti in strada, aprire le finestre, far prendere luce.
Continua occasione sprecata,
sensazione di stare comunque perdendo qualcosa.

Divertimento forzato, voglia di vivere indotta, è un peccato stare dentro a fumare.
Calcio in culo all’ozio,
ansia che ti assale, corpo che t’abbandona, mente che da sola si divora.
Un conto alla rovescia perenne, ogni primavera.

Mondo che si diverte alle tue spalle,
donna sfuggente,
sorriso beffardo,
sirena tentatrice,
eterna promessa puntualmente disattesa.

Prima vera falsa illusione;
provocatoria, ingannevole, artificiosa stagione.

L’amuri è pi’ fissa

Ho impuntato la chiave sbagliata nella toppa ieri sera,
mi è servita da cavalletto per individuare quella giusta.
Ho afferrato l’anello e scelto con calma.

L’amore è per i cretini, mi dicesti a suo tempo.
L’amuri è pi’ fissa.
Lassamu stari, chi l’amuri ‘mmazza i cristiani.

Credendoti, mi sono fidato.
Me ne accorgo ora, dopo mille storie bruciate,
che avevi ragione.

Che se sono ancora qui a parlarti,
è per un motivo soltanto:
non ci siamo lasciati inquinare.

Abbiamo preferito rimanere nel purgatorio dei chissà,
piuttosto che nell’inferno dei ‘mortacci tua’.
Siamo ancora vivi.

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Una fine ha un inizio

La tristezza ci colpisce a ogni angolo di strada.
Ora è un pugno in faccia, un’altra volta una parola non detta.
Ho riguardato le lettere che ti ho spedito: mentivo.
Niente sembra più lontano da me.

La verità è che a ogni giro abbiamo perso un pezzo,
proseguendo nonostante i continui avvisi a fermarci.
Una ruota, un alettone, un pezzo di carrozzeria,
ci sono rimasti telaio e motore.

Strofinando sull’asfalto stiamo continuando,
bruceremo presto testata e pistoni.
Tocca togliere il piede dall’acceleratore, alzare bandiera bianca e aspettare i soccorsi.
Con dignità ritirarci.

Ti vedo bella ora che scendi dalla macchina.

Mentre scavalchi questo scheletro di ferro senza voltarti.
Ti vedo bella come ogni volta che vai e mai quando sei qui.

Perché sei bella solo quando non ci sei?

Ogni volta che giri lo sguardo.
Quando ti immagino e non sei presente.

Forse sei solo un’idea, un cuscino morbido, le mie pantofole allineate sotto il letto.
La voglia di non uscire la sera.
Il kebab, Goethe, la doppia sveglia, la birra da 66, la terza linea della metro.
Non guardare nessun’altra per pigrizia, paura, abitudine, orgoglio.
E non perché amo te.

Sei svanita.
E non ti richiamerò più.

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Mollette in fila indiana

Ci sono dei vestiti secchi dentro una bacinella,
panni mai stesi al sole.

C’è un vento umido fuori dalla finestra,
è bastato sporgere la testa per asciugarmi.

Ci sono occhi che mi guardano,DSCF4561
mani che aspettano,
pelli che profumano,
un fondo di caffè dentro la tazzina.

Sul balcone ora le stoffe sono adagiate,
le dita allungate sulla tastiera,
i campi sterminati oltre il fiume.
Odori che dalle valli gelate giungono a me,
soffi che dissetano,
viaggiatori che si dispongono in fila indiana.

Menti inquiete adesso affollate da pensieri ordinati.

La valigia ha ripreso il suo posto sull’armadio,
i miei piedi quello sotto la scrivania.

Espresso 894

Ho perso un treno per il sonno,
era quello delle due e zero cinque,
l’ho perso perché pensavo a te.

Mi sono fermato a pensarti sulla pensilina,
mi è sfilato davanti
che non mi sono neppure reso conto si fosse messo in moto.

Chissà quando passerà il prossimo.

Il ritorno dei migranti,
stasera mille ricongiungimenti,
baci, abbracci e focosi amplessi.

Il primo calore dei miei gatti,
quello che mi perderò,
la pioggia che si precipita dalle terrazze.
Le strade bombardate,
il muschio che ricresce,
la ruggine sulle impalcature.

Ho mandato avanti il mio pensiero,
il mio corpo ha perso il treno,
tu ad aspettarmi,
non hai visto nessuno.

Io sveglio, in un ritardatario anticipo;
tu tornata a casa, abbandonata, delusa, felice, libera,
sopravvissuta, mai partita
o forse morta.

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Zona a traffico limitato

Sei una via con le scale,
di quelle non fatte per passeggiare.
Niente autobus, linee ferrate e scooter,
al tuo uscio si arriva col fiatone.

Sei una via piastrellata,
di quelle non battute dal sole.
Passamani arrugginiti, ciottoli saltati, rampicanti ai muri.

Via ombreggiata,
strada di comunicazione secondaria, scorciatoia non segnalata.
Umidità alle pareti, muschio negli angoli, odore di chiuso.

Sei una via sopraelevata,
da arrivare a piedi, per volontà e non per caso.
Porta nascosta sotto un arco,
finestra sbarrata, pianta secca non abbeverata.

Non un’indicazione sulla mappa, né nome sul campanello.
Chi viene da te sa cosa trova dentro.

Un letto caldo, poca luce, intonaci ammuffiti, tarme negli armadi.
Il tuo corpo, non la tua mente, l’elastico ai capelli, l’iniezione.
Una dose non letale di amore.

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Forme di vita

Persone che non sono te.
Persone, altre, che riescono a vivere senza conoscerti.

Voglio vedere persone /
Portatemi uomini, donne e bambini.

Chi respira, mangia e beve senza sapere di te.
Di città in città, in città che non sono te.

Chi legge, chi ride, chi sogna, chi s’addormenta.
Individui che riescono a fare a meno di te,
che neppure ti conoscono.

Portatemi cuori qui,DSCF4527
muscoli che pompano,
cervelli che progettano,
mani che impastano,
piedi che scalciano,
reni che filtrano e polmoni che ossigenano.

Voglio vedere come vive chi vive senza te.
Come sia possibile la vita in tua assenza.

Come si salvino in questa loro ignoranza.

Muta

Lei è diventata un cane.
Nell’esatto significato del termine.
Si è trasformata.

Fedele, servizievole, umile.
Ne ha assunto le parvenze fisiche.
Le fattezze e i modi.

I capelli sono diventati un ciuffo pennacchioso sciatto e sfibrato.
Sovrastato da una frangetta che tutto copre e perfettamente riproduce.

La schiena è dritta, di un portamento fiero e buffo al contempo.
Quasi scoliotico.

Il vestitino verde le calza a pennello, lasciando le estremità libere di muoversi.
Di zompettare.

Il padiglione decadente, a coprirle l’orifizio uditivo.
La collana cappio allentato di un collare dal quale non fuggirà.

Lei è cosi, scodinzola.
La punta della lingua sulle labbra cartilaginee, gli incisivi consumati ma ancora aguzzi.
Il naso schiacciato, come una ciliegina senza torta.

Lui la guarda.
Le si insinua sotto i vestiti con gli occhi inespressivi di uno che ha visto tutto.
Danza sui suoi merletti, scivola in mezzo ai suoi seni.

Lui la conosce.
Lei gli somiglia.
I cani dopo un po’ prendono le forme dei padroni.

Si assomigliano.

Il cappio non c’è più.
Lui la guarda ancora.
Lei scodinzola.

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Ti amo dopo

Facciamo così: che ti amo dopo, quando mi riprendo un po’.

Sono impegnato al momento, non in quel senso: sto in riunione.
Mi faccio sentire io appena stacco.

Davvero ora non posso, c’è gente qui, ma ci tengo a sentirti.
Amarti più tardi.

Tu riprova dopo, magari ho finito.
Sono libero, sto fuori, all’aria aperta, sono pronto.

Tu prova e se non rispondo non demordere.
Prova ancora, manda messaggi, insisti.

Al limite rifiuto, ma non vuol dire niente.
Chiamami dopo dai, devo chiudere, sto impegnato, scusami.

Ho la batteria scarica, facciamo così: io ti squillo e tu mi ami.

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I giorni tra le foto

Quante cose mi sto perdendo.

Le tue ciglia che sbattono.
Le saracinesche delle pescherie.

Il modo in cui sovrapponi le dita.
Pesci che saltano dentro la barca al fuoco di una lampara.

Il buco sul tuo mento.
Una grotta inesplorata.

La borsa a tracolla, i tuoi passi brevi, gli occhi chiari.
Le pietre sulla spiaggia, i fili di ferro arrugginiti, i tubi di scarico a mare.

Condofuri Marina, questa fine di settembre.

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D-day

Mi costa rimanere lontano dai tuoi fianchi.
Restare a distanza di sicurezza dalle tue spiagge.

Questione di competenza territoriale,
di decreti legge,
di convenzioni internazionali.

Mi pesa tenermi alla larga dal tuo costato,
non approdare sul tuo dorso,
accarezzare le tue rive.

Sotto coperta tramo uno sconfinamento involontario,
un casuale errore di rotta,
un’invasione per mare e per terra.

Viaggio sotto vento,
i fanali spenti,
le intenzioni chiare,
pronto a dichiararti guerra.

Vengo di notte,
risalgo i crinali,
sulle tue falde sbarco,
mi infiltro,
ti invado,
ti travolgo,
bacio.

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Amiamoci e partite

Per vivere in alcuni posti c’è bisogno di una buona motivazione.963802_10201112927055401_2095812833_o
Qualcuno da amare, qualcosa da fare. Non qualcosa in cui credere, a noi non servono madonne e santi.

Per vivere qui c’è bisogno di una bella donna, di un lavoro che stanchi. Di arrivare a sera senza la forza di pensare.

Perché strappi quel biglietto, dobbiamo trovare la forza di amarci. Dobbiamo dire: voi andate avanti che noi non vi raggiungiamo. Dobbiamo amarci senza la certezza di essere ricambiati.

Provarci: ora o mai più.

Vivere d’istinti, noi e non il bigliettaio con il suo lavoro fisso, noi e non l’obliteratrice che impavida mi aspetta. La forza di resistere, di piegarci al vento. Di non chiedere al mondo certezze.

Prendere altri percorsi, solcare altri mari, scalare nuove pareti montuose.
Fotografare il culo dei monumenti.
Dobbiamo pensare al contrario per rivelarci vincenti.

E non amarci male, prendere dell’amore solo la parte migliore.
O ci amiamo o parto, adesso è questo il punto.
L’alternativa tra civiltà e sogno.

Ascolta me: lasciamo agli altri le armi e gli impegni.
Fidati di me una volta: amami.
Amiamoci e restiamo.

Stiamo qui seduti estate e inverno.

Fermi come se fosse la nostra missione ultima, il fine per cui siamo stati concepiti.
Lascia che siano gli altri ad armarsi e partire.
A ritornare invecchiati, sfregiati e sordi.

Ho una pistola nella mano, un materassino sotto l’altro braccio, il colpo in canna, il sale sotto le piante dei piedi. Un treno all’orizzonte, un’amaca a due passi.

Se mi ami, lo giuro, non parto.
Come darmi torto.

Full di sintassi

Mi sono innamorato della tua sintassi, di come punteggi: sono grave?
Dottore, sia franco, ho speranze?
È forse una fobia? La paura di una nuova malattia.

L’accento acuto sul perché, le virgolette aperte e poi richiuse, le note al testo.
Dettagli che sottraggono tempo, ma arricchiscono.

Non voglio diventare uno di quegli uomini “senti a me non ti sposare”,
che, in realtà, senza una donna accanto non riescono a stare.

L’amore, per come lo intendo io, è un valore aggiunto,
non un farsi compagnia, respirarsi accanto.
Stare insieme per noia, accessoriare il tempo.

Odori che saziano, che rendono superflua la masticazione.
Invece io voglio sentire il bolo scendere: gola, epiglottide, esofago.
E non dovrai essere tu a cucinare per me.

Mi basta guardarti scrivere,
stanco io di leggerti,
ammirarti mentre componi.

Lo spazio dopo la virgola, i due punti anche nei messaggi di posta.
Nessun puntino sospensivo.grammatica
Non lasci che sia il mezzo a influenzare la forma.

Elisioni, troncature, consecutio temporum.
Il periodo ipotetico.
Congiuntivo, condizionale e gerundio.
Trapassato remoto e imperfetto.
Doppie negazioni.
Tris di incidentali.
Poker di avverbi.

Sai che infine ho deciso cosa voglio fare da grande?!
Diventare uno scrittoio.
E tu seduta su di me.

In amore vince chi funge

In amore vince chi serve, me l’hai detto tu. checkline_tachimetri_cdt_2000_hd

Amore sano in corpo sano,
amore sano in mente libera.

In amore vince chi funge,
chi opera in un ruolo,
chi non ha altri pensieri.

Surrogati, grassi idrogenati aggiunti, prezzi popolari.

Vince te chi ha pochi altri obiettivi:
farsi piacere, corteggiare, tampinare, amare.

In amore vince chi fisicamente funziona:
pettorali, addominali, deltoidi, fiato per correre.

In amore vince chi ha mente e corpo apposto,
chi salta, chi rotola, chi si inerpica,
chi sa fare venti flessioni di fila.

In amore vince chi sa ammaliare,
chi sa baciare,
chi sa camminare sulle punte con un libro in testa.

Chi riesce a toccarsi il naso con la lingua,
chi arriva a mordersi il gomito.

In amore vince un fegato reattivo e un intestino efficiente.

Due polmoni puliti e un costato forte,
reni drenanti e giunture lubrificate.

Braccia lunghe, quadricipiti robusti,
mani da pianista.

Gambe dritte, piedi egiziani,
misure proporzionate.

Cuore che non pompa sangue ma batte forte,
cervello che non elucubra ma esegue solerte,
mani che non compongono ma accarezzano,
braccia che non costruiscono ma abbracciano.

È tutto un fare funzione, amare te.
Organi che decidono di cambiare destinazione d’uso e padrone.

Chi ad altro è destinato:
l’arte, il gioco, la vita,
eppure si immola a te.

Chi sostituisce la sua vita con la tua.

In amore vince te chi si dona,
chi fa le funzioni tue.
Io no.

Crepare d’amore

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L’amore ammazza.

Forse è come dice A., che a trent’anni ci si innamora in modo ragionevole.

Che non si cambia in peggio, non ci si rincoglionisce più di tanto, che il cuore non batte più forte.

L’amore rende scemi.

Innamorarsi di una frangia, di una posa, di un paio di occhiali da sole.

Due biscotti tenuti stretti che affogano in una tazza di latte bollente.

L’amore è per gli scemi.

Forse è meglio non macchiarlo di realtà questo sogno.

Abitare accanto senza mai essersi visti.

L’amore uccide.

Ti seguo, dove vai, ti seguo.

Rallenta, non ti sto dietro.

Rallenta, vai piano ché d’amore si crepa.

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Questo, Codesto è Quanto

Quindi chi quantifica quel quadro?

Chi santifica il dipinto /
e gli apostoli rappresentati?

Chi glorifica i vangeli apocrifi?

E quella cornice /
è lì da sempre o sbaglio?

Dovrei chiamare Azeglio /
lui sì ch’è bravo con lo smeriglio.

Azeglio: visigoto che odora d’aglio.

Quindi quando può venire, al quaglio?
Caglio orario, non latte coagulato.

Qui quello non quaglia /
almeno finché sono sveglio!

È meglio se rimango desto /
magari mi accovaccio seminascosto.

Mi metto in bocca il fischio /
upupa o fagiano /
sul deretano schioppo.

Forse un infarto,
farsi il forte;
farselo non atto sessuale: atteggiarsi.

Scimmiottare un orango,
magari Bernacca al Governo.

Dire donna dire danno,
non l’anticiclone, neppure le Azzorre.

Vieni qua che forse hai un infarto non farti il forte!

Venire moto per luogo,
non venire orgasmo.

Vai avanti, cretino!
Vatti a bruciare.

Chi grida? Che grida? Ripete.
Ripeti: non farti il forte c’hai la morte nel q.

Q di quadro, q di soqquadro, q di quaderno e non di scuola.

Q di cuore.
Q di quando.
Q di tris di Q.
Q di donna.
Quattro q poker.

È domenica: andiamo all’Ikea.

Che scriva, chi scrive, quel che pensa.

Che legga, chi legge, quel che prova.

Che scriva, chi legge: provi a sperimentare.

Che legga, chi scrive: non si chiuda in sé.

Che legga, chi scrive, quel che chi legge scrive.

Ché sono suoi, di chi legge, la storia, i brividi, la vita, il libro.

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21 marzo – Giornata mondiale della poesia

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I poeti sono dei vecchi

I poeti sono dei vecchi quando non si alzano tardi la mattina.
I poeti sono dei vecchi quando scrivono, non fumano e non bevono.
I poeti sono dei vecchi quando rientrano a casa presto,
non oltrepassano l’uscio per il freddo,
quando preferiscono il fresco alla canicola.

I poeti sono dei vecchi quando vengono dalla critica osannati,
il loro stile chiaro e definito,
il loro pubblico consolidato.

I poeti sono dei vecchi quando non rinnegano la loro produzione letteraria,
quando con un proprio libro in mano, beffardi, sorridono
e non lo scagliano lontano, contro un muro.

I poeti sono dei vecchi quando si pettinano,
quando si lavano i denti prima di mettersi a scrivere.
I poeti sono dei vecchi quando non amano,
quando scelgono i surrogati dello zucchero e del caffè.

I poeti sono dei vecchi quando trovano un posto dove stare,
quando il focolare caldo e la camomilla prima di andare a dormire.
I poeti sono dei vecchi quando la loro massima ambizione è scrivere,
quando, firmato un contratto editoriale, sentono di essere arrivati.

I poeti sono dei vecchi quando di scrittura riescono a vivere,
quando i racconti vendono e l’autoreferenza incassa.
I poeti sono dei vecchi quando smettono di leggere,
quando le loro storie vengono prima delle altre.

I poeti diventano vecchi da giovani,
dandosi un tono, rimuginando, chiudendo l’istinto a doppia mandata in bagno.
I poeti diventano vecchi quando scoprono la forza dell’inazione,
quando preferiscono descrivere una nevicata da dietro un vetro temperato.

I poeti diventano vecchi quando hanno paura di offendere,
quando cercano di essere politicamente corretti,
quando hanno amici, lettori, che preferiscono non ferire.

I poeti sono vecchi quando coerenti,
quando si muovono per stanze sicure,
quando si guardano allo specchio prima di uscire,
quando preferiscono non rispondere piuttosto che mortificare.

I poeti sono dei vecchi quando non si annoiano a rileggersi o ascoltarsi.

I poeti diventano vecchi presto,
nei modi, nelle opportunità, nelle cautele che prendono,
dal mondo che rifuggono,
nella solitudine che ricercano.

I poeti sono dei vecchi che sorridono e vanno a letto presto.
Sono quelli che ai loro coetanei dicono:
“Voi sistematevi, mettete su famiglia e conformatevi. Io parlerò agli altri, a quelli che dopo di voi verranno. A chi saprà ascoltare senza giudicare. A chi saprà cogliere.”
I poeti sono dei vecchi,
disinteressati, menefreghisti e sordi,
gli unici che tutta la vita parleranno ai prossimi.

A chi è in ritardo, a chi sta per arrivare, a chi si trova altrove.

Non regalate Moleskine ai poeti

La vita è lotta.

Scrivere è interpretare.
Interpretare è vivere.
Scrivere è lottare.
Non regalate Moleskine ai poeti.

Incitateli a vivere, non a prendere appunti.
Che per scrivere c’è sempre tempo.
Regalate loro un’arma da taglio,
un infuso, un unguento o un detonatore.

Non portate da mangiare ai poeti.
Che vivano, si mescolino, si confondano.

Attaccateli con un pretesto i poeti,
fateli uscire allo scoperto.
E che si fottano i poeti,
che prendano una per tutte posizione.

Che sanguinino i poeti,
lavino i piatti e stendano i panni.
I poeti.

Buttateli giù dal piedistallo, i poeti.
Scavate loro una fossa e sotterrateli.
Ché la descriveranno meglio la morte se nessuno li ascolterà.

Lasciateli cantare, i poeti.
Fateli blaterare.
Soli e pazzi come galli.

Date un calcio ai poeti,
fateli reagire.
Dite loro di svegliarsi,
di rinsavire nell’immediato.

Strappate i fogli ai poeti,
bruciate i loro incartamenti.
Che scendano in strada,
che vengano al mondo a vedere quello che succede.

Leggeteli e criticateli i poeti,
che di lusinghe più dell’ipocrisia si muore.
E non amate poeti,
non in questa vita.

Stimateli o disprezzateli, questi poeti.
Rimanete da loro alla larga.
Non ne frequentate, di poeti.

E fateli soffrire, i poeti.
Che siano consapevoli ogni giorno ancora di sbagliare.
Di esser sempre nel torto e mai nella ragione.
Che fino all’ultimo istante sappiano,
che hanno buttato la loro vita in un cesso.

E ancora soli, in strada, al freddo, occhi bassi, a subire, a reagire.
A lottare.

Non regalate Moleskine ai poeti.

Lovely planet

Viaggiare mi ha rovinato.
Lo affermo con cognizione: viaggiare mi ha irrimediabilmente compromesso l’esistenza.
Tanto ho visto, altrettanto ho sentito.
Troppi i posti in cui ho avvertito positive vibrazioni.
Almeno quattro, quelli in cui sono tornato una seconda volta.
E una terza, ancora.
Perdutamente innamorandomene, pensando di viverci, per poi repentinamente cambiare idea.
Ad ogni nuova tappa.

Viaggiare ha fatto crollare le mie certezze, annichilito le mie resistenze, creato nuovi mostri.
Come una malattia cronica, non v’è altra via di guarigione se non nella ripetizione.
Camminare senza sosta, senza decidere dove germogliare, la mia sentenza passata in giudicato.
Condannato in via definitiva a non trovare mai rifugio e pace.

Viaggiare uccide.
Convinzioni, illusioni, speranze e preconcetti.
Viaggiare distrugge, viaggiare costruisce.
Ma non v’è altra via, per me, d’intendere la vita.
Altro insegnamento, il più importante, da demandare.
Di generazione in generazione.
Nulla di più esatto e inconfutabile.
Viaggiare.
Viaggiate.
Viaggiamo.

Reggio Calabria

Reggio Calabria è Via del Torrione.
Grande, nascosta, bistrattata, maltrattata.

Ci parcheggiano le auto in Via del Torrione, dall’altro lato ci passano i bus metropolitani.
Clacson, polvere e monossido.
Come se non fosse anch’essa Centro Storico.

Ne apprezzi l’ampiezza solo guardandola dall’alto, Via del Torrione.
Non quando ci sei incolonnato dentro.
Sempre sperando che il rosso non duri,
che la fila scarburi.

Nessuno mai la nomina, Via del Torrione.
Non una foto, una didascalia, un accenno.
Non si esce a fare due passi, su Via del Torrione.

Strada di passaggio, Via del Torrione.
Più di Reggio Calabria, dove se ci arrivi
è perché ci devi andare.

Ma Reggio Calabria è, come Via del Torrione.
Grande, nascosta, bistrattata, maltrattata.

Come una condanna che ti ha educato.
Solo da lontano, a distanza di tempo,
la puoi apprezzare.

Nantes.

Saltare un giorno a volte può fare male.

Quando il fine settimana lo inizi di venerdì mattina sai già a cosa stai andando incontro.

Che poi ti ritrovi alle due meno un quarto di sabato, appena sveglio, a ragionare sui massimi sistemi.

Come se fosse domenica e fosse già tempo di bilanci.

Con una canzone di sottofondo della quale controlli sempre l’avanzamento, con la paura che finisca troppo presto. Prima che tu possa metabolizzare certe scorie e sensazioni. Prima che il silenzio ti riporti al tuo disorientamento spazio-temporale. Come un diario di viaggio su Amsterdam che è meglio non guardare se hai già i tuoi, di dubbi esistenziali.

Se il sabato sera bevi liquore e non riesci ad estraniarti dalla tua vita, non meravigliarti di essere così profondo la domenica all’ora di pranzo.
Che giorno sarà domani se già tra ieri e oggi ho dato tutto? Un vuoto che inizia già da questo pomeriggio. Ho aperto gli occhi che già sapevo come sarebbe andata. E man mano che scrivo anche l’ispirazione che mi ha fatto iniziare svanisce. Ci riescono a fatica i Beirut a mantenere regolare il mio livello di spleen. Ci pensano i loro tromboni e ukulele a farmi rimettere in nota.

Chiudo la porta e mi guardo allo specchio, mi aggiusto gli occhiali storti.
Ho appena appoggiato la tazza sulla scrivania, il mio venerdì sera è uffialmente finito.
Come una canzone di Leonard Cohen a coprire una traccia rap hardcore.
Parole compassate ad eclissare frustrazioni secolari.

Come un sorriso domenicale che ho indossato per un po’.
Ho messo la canzone in pausa e ho continuato, da solo, a cantare.
Tenendo una dose di malinconia da parte, per quando meno mi servirà.
Per due giorni o tra vent’anni.

Apro la porta e respiro, che è domenica.
O sabato, già.

Dell’idolatria

Cosa porti un uomo a idolatrare un suo simile è cosa a me oscura.

Macchine con i vetri oscurati che arrivano e ripartono.

Folle oceaniche che inneggiano un nome.

Platee che si aprono per consentire la passerella a divinità terrene.

Uomini, semplicemente.

Tra carenza atavica di personalità  e delirio collettivo, il mito altrui si costruisce e si solidifica.

Pare sia impossibile rimanere indifferenti al passaggio di una celebrità.

Bisogna per forza apostrofarlo o tampinarlo.

Impossibile camminarci fianco a fianco, urtarlo per sbaglio.

Occhiali scuri e scorte armate si rivelano imprescindibili.

Troppi gli esagitati in cerca di fama.

Troppi fan, troppe groupie, infiniti adulatori.

Troppi rischi connessi alla popolarità.

Limitarsi ad apprezzare l’artista o statista che sia, nell’adempimento delle sue funzioni pare essere strada impraticabile. Bisogna possedere l’uomo, oltre che il professionista.

Strapparsi i capelli e urlare.

Riacquistare un po’ di sano egocentrismo potrebbe essere la svolta.

Se non altro una soluzione praticabile.

Normalizzare i rapporti, ristabilire le gerarchie, annullarle.

Provare a pareggiarsi.

Un mondo senza idoli è possibile.

Un mondo senza idoli è oltremodo necessario.

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La maggior parte dei sudditi crede di essere tale perché il re è il re, il popolo non si rende conto che in realtà il re è re perché essi si considerano sudditi.

Karl Marx

in foto: Abitazione di Vasco rossi (esterno).

Cronache d’autunno.

L’autunno è un vecchio con l’impermeabile verde ai margini della strada.
Solo, alza la mano e saluta il nulla.
Gli tornano indietro gli schizzi che, lento, non riesce ad evitare.

L’autunno è un pomeriggio lungo, una sera che inizia alle quattro.
Un libro dai fogli ingialliti, un manico di rosso smaltato.
La pioggia che scende dalle grondaie, gocciola per non risalire in cielo mai più.

L’autunno è una coperta ricamata a mano.
È arancione e verde, ha i rombi disegnati e puzza d’armadio.
Allunghi le gambe e scopri la punta del piede.
Il tempo di girarti dall’altro lato e raccogliertici dentro.

L’autunno è la campanella di fine lezione, l’ora di ginnastica e di religione.
Il registro di classe e la fantasia nelle note delle giustificazioni.
L’appello il primo giorno di scuola,
il nodo allo stomaco quando senti pronunciare il tuo cognome.

L’autunno è una poesia in francese:
C’était sur la tourelle.
D’un vieux clocher bruni.
Une jeune hirondelle.
Le coeur encor bien frêle.
Était au bord du nid.

La leggi in un libro con la copertina plastificata,
è azzurro e ha gli angoli sollevati.
Puzza di vernice e colla.
Profuma.

L’autunno è un nuovo anno che inizia, il tempo che inesorabile passa.
Uno stormo di buoni propositi che si scontrano frontalmente con la realtà.
Verso una regione calda, nell’attesa di reincontrarti, emigrano.

Invasioni urbane

An other classroom
Quando ad un bambino chiedi «che classe fai?», lui non ti risponde mai: prima, seconda o terza. Ti dice convinto: «Prima B», o Seconda A, o Terza C. Non una classe qualunque, la propria. È innato in lui il senso dell’appartenenza, della comunità. Un mondo confinato, e per certi versi chiuso, che non è altro che proprio. E di quelli che con essi vivono e condividono.
Un universo finito e completo, un insieme autarchico ed autosufficiente: la cucina, la tv, la maestra, il tragitto verso scuola, i compiti a casa, la scatola dei colori, la cameretta, il tavolo della cucina a casa dei nonni, le corse durante la ricreazione, il grembiule blu, la Prima B e la Seconda A.

State of mind
Vorrei vivere in uno stato di costante esaltazione,
trepidante come uno studente di prima liceo
al suono dell’ultima campanella di lezione,
un sabato di inizio primavera.

A piè pagina
Si costruiscono città con le parole, congiunzioni sui muri e soggetti portanti, nero su bianco nelle piazze e dentro i palazzi. Rosso grassetto, giù, nelle fermate della metropolitana, sinuoso corsivo sui merletti dei monumenti. Verbi che volano e inchiostro indelebile. Guardando il cielo, aspettando una lacrima o un soffio di vento che ti porti via.

 

Questi tre componimenti, insieme ad Orma Calabra ed altri aforismi, sono stati selezionati dall’associazione Mammalucco e saranno esposte, stampate su pannelli, al festival Invasioni Urbane che si terrà a Taurianova (Rc) nei giorni 24-25 e 26 agosto 2012.

http://www.invasioniurbane.it/

Avrei voluto vedere i miei amici invecchiare, non avrei preteso poi tanto. Avrei voluto vederli maturare, adattarsi alle diverse esigenze della loro vita, rinnegare buffamente le rivoluzionarie idee giovanili. Diventare quello che spergiuravano di non diventare mai.

Non chiedevo poi tanto.

Avrei voluto vederli crescere, i miei figli, stupirmi con loro e per loro. Capire come e quando sarebbero cambiati, come avrebbero reagito ai mutamenti della loro personalità e della nostra società.

Non pretendevo poi tanto.

Avrei voluto vederla sfiorire, mia moglie, cogliere le sfumature del nostro amore simbiotico. Essere con lei ogni sera quando, seduta sul letto, piegandosi si disfaceva della sua maschera. Essere lì per cogliere l’essenza di lei.

Non desideravo poi tanto.

Avrei voluto percorrerla ancora quella strada, in quella terra  dove finisce la terra. Estasiarmi dei contrasti di Madre Natura. Sabbia, pietre, erba secca e mare verde acqua.

Malaria, gramigna e natura che esplode.

Odore di erba tagliata fresca dentro le mie pupille.

Seguirla, quella strada. Inseguirla tutto intorno.

Costa costa fin su, senza mai un sorpasso.

Non cercavo poi tanto.

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*tratto da Gli ambidestri domineranno il mondo, Appendice.

Aracne Editrice, http://www.aracneeditrice.it/aracneweb/index.php/catalogo/area/areanarrativa/narrativa/9788854843868-detail.html

AVVISO PER UN’ESTATE SICURA: Con l’arrivo dell’estate si moltiplicano i casi di incontri indesiderati, anche in ambienti cosiddetti familiari. Diffidate dai soggetti che negli androni condominiali fortemente sospirano mentre con voi attendono l’elevatore. Molto probabilmente è il preludio di un classico discorso da ascensore, che quasi sicuramente verterà sul clima e sul grado di umidità presente nell’atmosfera. Muovetevi con lentezza, evitate di incrociare lo sguardo degli elementi in questione, maneggiate nervosamente il cellulare e mostratevi in generale poco propensi al dialogo e alle relazioni sociali. Un paio di occhiali scuri possono agevolare la vostra elusione. Diffondete questo messaggio, è importante.

🙂

Orma Calabra

Per chi abita in Calabria è uno spettacolo usuale quello del cemento armato fradicio, lesionato, invaso dalla malaria e dalla gramigna. Un ambiente quasi familiare
Muraglioni lunghi centinaia di metri ornati da puntelli arrugginiti attraversano bassipiani di terra sabbiosa, sopra e sotto riconquistati dalle erbacce.

Asfalti sconnessi, guard rail dimenticati, vernici bevute dal sole e scolorite dall’acqua.

Qua e là, a due passi dal mare verde, supplizi di calce e ferro.

Cicatrici scrostate e mai rimarginate.

Come muri di un progresso compulsivo lasciati essiccare al vento caldo dell’indifferenza.

Cattedrali di una fede eretica.

Avamposti in un deserto di sale dimenticato.

Orme da non ricalcare.

Oggi, domani, sempre, NO alla Centrale a carbone a Saline Joniche.

Colonia estiva

Dell’estate mi piace la brezza sui polpacci quando sono sdraiato a pancia in giù nel letto,

mi piace l’ombra di taluni vicoli scrostati del centro storico.

L’afa, il troppo caldo, un gatto tigrato che ansimando si gonfia e si sgonfia di calore.

Placido, dorme.

Dell’estate mi piacciono l’inattività e il sudore, la calura che ogni movimento fiacca.

Le serrande abbassate, gli occhiali scuri, le pietre roventi.

Le strade in salita sotto il sole cocente.

Dell’estate mi piace il rumore degli autocarri giù in strada,

gli oggetti e i piedi trascinati sul selciato.

I rimbalzi di un pallone in un cortile e le piante secche, arrostite, dimenticate sui balconi.

Dell’estate mi piace il volume basso dei televisori, l’ultimo pensiero prima del riposo pomeridiano.

Gli occhi socchiusi, la quasi incoscienza, la mente distante.

Dell’estate mi piace il bordo del materasso, afferrarlo prima di dormire.

Le parole lontane, i discorsi concitati, il ‘pari o dispari’ per scegliere le squadre.

Un ventilatore che, arrivato a fine corsa, cambia direzione.

Dell’estate mi piace il primo pomeriggio al mare,

il rumore delle chiavi e degli spicci dentro la tasca destra dei bermuda.

Dell’estate mi piace il lato del guanciale fresco, quello che sta sotto.

Girarlo e rigirarlo cento volte a notte.

Dell’estate mi piacciono i compiti per le vacanze,

immergermi, riemergere, asciugarmi, quindi immergermi ancora.

Un atrio da cocci di marmo lastricato,

ugole e bronchi che sfidano l’umidità,

uno stuolo di scolari in libera uscita,

attraversano scomposti la via del mare.

Una scala stretta di cemento, poi di corsa il tuffo.

Nessun vascello all’orizzonte, soltanto il sole che sordo batte.

28 kb di celebrità

Tutto partì con le tradizioni orali, anziani intorno al fuoco che enfaticamente tramandavano.

Qui accadde questo, al di là delle montagne rocciose funziona così, a maggio la terra riposa.

Poi fu la volta dei papiri, dell’inchiostro, degli amanuensi. 

Delle scritture più o meno sacre.

Tomi dai caratteri orpellati che riempivano gli scaffali dei monasteri e delle università.

C’era la Storia scritta dai vincitori, usi e consuetudini finalmente nero su bianco.

C’era da meritarsi un posto nei libri di storia.

Anche due righe, giusto per far sapere ai posteri di esserci stato.

Per lasciare a loro l’onere dell’ardua sentenza.

La storiografia, dopo poco, si metteva in moto tra contestualizzazione e revisionismo.

Al citofono, l’agente di vendita della Treccani ci tormentava.

In 12 comode rate catalogavamo il nostro sapere, dalla A alla Z.

Venne, quindi, la volta dei mass media e dei quindici minuti di celebrità.

Democrazia dell’apparenza.

Un quarto d’ora di notorietà tocca a tutti, prima o poi.

Nulla in confronto all’archiviazione informatica.

Biografia, gesta e pubblicazioni scientifiche in un file pubblico personale.

Il grado di popolarità dipende dalla presenza o meno su un sito internet.

Wikipedia.

È la prima cosa che facciamo quando vogliamo sapere di qualcuno: “nome cognome wikipedia”

Se ci sei, sei meritevole e famoso.

Fai bene ciò che fai e sei degno d’ascolto.

Ha avuto un senso la tua vita.

Al macero le biblioteche, la memoria digitale si decomprime ed espande.

A macchia d’olio, da una chiave usb a tutti i server del mondo.

Letture veloci e clic sul sottolineato in blu.

Altra pagina, altre didascalie, altre connessioni e argomenti correlati.

La storia dell’umana stirpe compressa dentro una dozzina di server sparsi tra Olanda e Florida.

Collegamenti ipertestuali e un sapere ogni giorno più superficiale.

Il senso del nostro passaggio terrestre, oggi, si misura in megabyte.

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Non ci sarà alcuna gloria nel tuo sacrificio. Presto cancellerò persino il ricordo di Sparta dagli annali. Ogni pergamena scritta dai Greci verrà bruciata! A ogni storico Greco, a ogni scriba verranno cavati gli occhi, e la lingua sarà loro mozzata! Chiunque evocherà il solo nome di Sparta o di Leonida sarà punibile con la morte! Il mondo non saprà mai che siete esistiti, Leonida.

 Serse – Trecento – film

Illustrazione di: Giulio Bonasera – http://bonzillustrator.com/